Un passo indietro e uno in avanti. Suona così la dichiarazione del premier israeliano Benjamin Netanyahu che, in un video diffuso lunedì sera, ha annunciato che Tel Aviv ha fissato una data, senza però dire quale, per l’ingresso dell’esercito a Rafah.
Israele intanto ha ritirato le proprie truppe dal sud della striscia di Gaza, a eccezione di una brigata. Lo ha fatto nel giorno in cui cadono i sei mesi dal sanguinoso attacco del 7 ottobre 2023 da parte di Hamas, che ha provocato l’invasione israeliana. In quell’occasione morirono 1’170 persone e 253 vennero prese in ostaggio. L’ultimo bilancio delle vittime diffuso dal ministero della sanità della striscia (controllato da Hamas) parla di 33’137 morti, senza distinguere civili o combattenti.
Le comunicazioni dell’esercito sono avare di dettagli sui motivi e la durata del ritiro. Le intenzioni dei militari non sono chiare, ma Netanyahu ha detto che Israele non è mai stato cosi vicino alla vittoria. Intanto però il premier deve vedersela con l’ira della piazza: ieri (sabato) in centomila si sono radunati a Tel Aviv per chiedere le sue dimissioni. Ci sono stati sporadici scontri con la polizia. Manifestazioni anche in altre città israeliane.
Sul fronte diplomatico contatti sono in corso al Cairo per negoziare un tregua, con la forte pressione degli Stati uniti e di altre cancellerie arabe e occidentali. Sembra che lo scoglio principale siano le modalità del rientro di civili palestinesi nel nord della Striscia: Israele vuole che passino attraverso dei propri check-point ed esclude di far tornare i maschi in età per combattere. Hamas rifiuta i check-point.