Raccontare per non dimenticare, raccontare affinché quell’orrore non torni più. È la missione di Edith Bruck, scrittrice, poetessa e sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti. Nata in Ungheria, vive a Roma oramai dal secondo dopoguerra. È una delle ultime testimoni dirette di quello che fu l’Olocausto. Frammenti di un racconto tragico che Edith Bruck ha condiviso anche con noi, lasciando anche un importante messaggio di speranza in questa Giornata della Memoria.
Per me non si tratta di una giornata… è una vita. Tutto l’anno per me è testimonianza, tutta la vita direi. Ma quello che è accaduto nel cuore dell’Europa nello scorso secolo, riguarda tutti quanti non soltanto noi sopravvissuti, delegati purtroppo alla testimonianza, ma riguarda tutta la civiltà, europea e non soltanto.
Edith Bruck ha dedicato tutta la sua esistenza a raccontare l’Olocausto. Ma chi ha vissuto l’inenarrabile, ricorda cosa era prima di quel male? È sopravvissuto qualcosa?
Io mi ricordo ogni minuto della mia vita. Ricordo la mia infanzia molto povera, eravamo una famiglia ebrea numerosa vivevamo in una casa minuscola. Una piccola minoranza sottoposta già all’antisemitismo storico, poi è arrivato quello moderno, poi la propaganda nazi-fascista…soprattutto quella fascista ungherese, che ha infettato anche le menti migliori. Dal 1942 al 1944 era una vita quasi impossibile: insulti, ognuno era libero di fare di noi quello che voleva. Io sognavo di fare la poetessa. Volevo studiare, ma non potevo, perché eravamo molto poveri. Così non vedevo l’ora di crescere per lavorare e guadagnare per aiutare la mamma ad aggiustare i denti e comprare vestiti a papà. Avevo molti sogni e progetti per il futuro, che si sono interrotti da un momento all’altro. E quando li ho realizzati non c'era più nessuno ad aiutare. Per 20 anni non ho mangiato pesce, perché a mio padre piaceva così tanto, non ho toccato un’arancia perché mia madre ne aveva mangiato solo una nella vita. Compravo sempre stoffe per mio padre, che tenevo a casa. Insomma, è stato un lutto molto molto lungo.
Lei era solo una bambina di 13 anni quando è stata deportata, cosa ricorda?
La prima deportazione è stata nel marzo 1944 nel Ghetto di Budapest. Eravamo separati dalla popolazione, ma almeno sono potuta andare a scuola. In aprile, dopo la Pasqua ebraica, sono arrivati i fascisti e i gendarmi ungheresi a prenderci: non i nazisti, badi bene….dopodiché è iniziato l’inferno. Una prigionia durata un anno, in sei campi diversi.”
Lei ha definito Auschwitz la sua università, il luogo dove ha conosciuto tutto sul genere umano. Un luogo di esistenza negata dove però lei ha trovato anche barlumi di luce, di umanità. In che senso?
Sì, il primo, è stato all’arrivo ad Auschwitz, quando inizia la selezione: un soldato tedesco mi sussurra insistentemente “vai a destra vai a destra”. Quell’uomo ha avuto un’ombra di pietà verso quella ragazzina bionda che ero io e mi ha dato la possibilità di sopravvivere, perché mi ha mandata ai lavori forzati. A sinistra c’erano le camere a gas, dove è finita la mia famiglia. La seconda luce è stata a Dachau: un cuoco mi chiese “come ti chiami?”. Per me, che oramai ero calva, mezza nuda, con gli zoccoli, una persona spogliata della sua identità del suo nome, solo un numero tatuato sul braccio 11’152, sentirsi chiedere “Wie heisst du?” è stato un gesto di massima bontà e della speranza.
Il 27 gennaio si ricorda la liberazione del campo di sterminio di Auschwitz, ma la sua liberazione è arrivata molto dopo, nel maggio…perché i tedeschi sottopongono lei e sua sorella alla cosiddetta marcia della morte da un campo all’altro….
Sì, hanno tentato di annientarci fino alla fine. Abbiamo camminato 1'500 chilometri a piedi, mangiando immondizia ed escrementi secchi. A un certo punto siamo arrivati a Bergen Belsen, un campo di uomini, ma era una distesa di cadaveri: erano quasi tutti morti. I tedeschi ci dissero che ci avrebbero dato una doppia razione di zuppa se trascinavamo quegli uomini in una grande tenda…era una sorta di immensa piramide di morte. Lì due uomini morenti mi dissero “se sopravvivi racconta tutto questo anche per noi. Mi supplicarono”. Io ho detto sì e non ho mai smesso di raccontare. Anche se è impossibile raccontare fino in fondo quello che è stato: la sofferenza interiore, quella morale, l’indignazione umana. Ma oggi è importante ricordare, forse più di quanto lo fosse dieci anni fa visto cosa succede nel mondo, visto il rafforzamento dell’estrema destra.
Anche lei teme, come Liliana Segre, che alla morte degli ultimi sopravvissuti la memoria della Shoah si perda?
Io sono meno pessimista di Liliana Segre. Penso che i nostri testi, i nostri racconti a qualcosa siano serviti. Qualcosa resterà. E ho fiducia nei giovani. Forse Liliana è più realista di me può darsi che io sono una sognatrice però tento di crederci. Credo che un po’ di luce ci sarà sempre, non sarà tutto buio pesto.
Lei ha detto di non aver mai odiato nessuno. Come si fa a non odiare davanti a tanto male?
Non ho mai odiato nessuno, mai. Nemmeno i giovani hitleriani che mi sputavano addosso quando ero lì per la disinfestazione, nuda. Nemmeno quando vedevo sulla loro cintura “Dio con noi”, mi dicevo: che vergogna, portare Dio in questo campo, così orrido. Ma secondo me l’odio avvelena noi stessi. In ogni essere umano c'è il bene e c'è il male. Noi dobbiamo in qualche maniera alimentare il bene e far morire di fame il male.