Il gasdotto Nord Stream è stato sabotato il 26 settembre del 2022 da un commando ucraino. La conferma ufficiale, dopo quasi due anni, è arrivata con il mandato di arresto, spiccato alla vigilia di Ferragosto dalla Procura generale tedesca, contro uno degli esecutori ucraini dell’attacco, nel frattempo rifugiatosi in Polonia (e poi in patria) facendo perdere le proprie tracce.
Che la pista investigativa portasse direttamente a Kiev era cosa ormai nota, dopo che dalla primavera del 2023 si erano susseguiti sia i rumors dell’inchiesta di Berlino sia gli scoop giornalistici di media tedeschi e statunitensi, confermati da ricerche sul terreno e da riscontri politici.
L’operazione è stata ricostruita nei dettagli, dubbi su chi l’abbia eseguita ormai non ce ne sono più. Dopo un incontro nel marzo dello scorso anno tra il cancelliere Olaf Scholz e il presidente Joe Biden i contorni della vicenda era già divenuti chiari, con fonti di Washington che avevano puntato pubblicamente l’indice contro l’Ucraina. Da allora la situazione si è maggiormente definita nei particolari, sino alla mossa tedesca che sembra aver chiuso definitivamente ogni speculazione su chi materialmente sia stato responsabile del più grande sabotaggio a un’infrastruttura civile dalla fine della Seconda guerra mondiale.
La vera responsabilità
La Procura generale tedesca non si è espressa naturalmente su chi abbia dato davvero l’ordine di condurre l’azione, avviata da un Paese contro un suo stesso alleato, ma questo appunto è un altro discorso: politico. Ed è anche la ragione per cui l’intera vicenda del sabotaggio di Nord Stream è sempre stata trattata, nel contesto della guerra tra l’Ucraina sostenuta dalla NATO e con la Germania al secondo posto dopo gli Stati Uniti tra i maggiori sostenitori, come un dettaglio secondario. Anche da questo punto di vista però non ci dovrebbero essere troppi dubbi, applicando lo stesso principio adottato in precedenza sul versante russo.
Se alla fine dei conti il responsabile politico di ogni tipo di operazione di Mosca, militare, d’intelligence e via dicendo, è Vladimir Putin, presidente e capo supremo delle forze armate, a Kiev il medesimo ruolo è coperto da Volodymyr Zelensky. In cima alla piramide c’è insomma il capo dello Stato, che, detto alla spiccia e nei minimi termini, non può non sapere: a livello pratico, Zelensky non poteva quindi non essere a conoscenza del piano, approntato secondo ricostruzioni non ufficiali con la supervisione dall’allora capo delle forze armate, Valery Zaluzhny, dal quale dipendono anche i servizi segreti militari guidati da Kyrylo Budanov.
Il ruolo degli Stati Uniti
Assodato dunque che l’Ucraina ha attaccato la Germania con un’operazione di intelligence militare in un caso senza precedenti, c’è da chiedersi se lo abbia fatto, e potuto fare, senza consultarsi con il maggior alleato, ossia gli Stati Uniti, e se questi fossero davvero all’oscuro di tutto. Sin dall’incontro di Scholz e Biden lo scorso anno, Washington ha scaricato la totale responsabilità su Kiev, che, in ogni caso, ha sempre negato ogni coinvolgimento. La questione è però anche in questo caso politica, al di là degli aspetti della comunicazione tra i servizi dei vari Paesi occidentali, dagli USA alla Germania, passando naturalmente per la Polonia e i rapporti, militari, privilegiati tra Varsavia e Kiev.
In ogni caso, nonostante la coltellata ucraina alle spalle tedesche, con la nebbia della guerra che ha contribuito sia a confondere le responsabilità sia a tenere sotto traccia un questione potenzialmente lacerante tra l’alleanza occidentale, il sabotaggio del Nord Stream, che ha contribuito notevolmente a ridisegnare la mappa energetica non solo della Germania, ma dell’Europa intera, non ha influito sui rapporti né transatlantici né tra Berlino e Kiev. Almeno per ora e almeno in apparenza. È comunque altrettanto evidente che i conti in qualche modo dovranno essere fatti, a maggior ragione dopo la pistola fumante e l’esito dell’indagine della Procura tedesca.
La pressione su Kiev
La notizia, pur arrivata in questi giorni in cui a dominare la narrazione del conflitto è l’incursione ucraina nella regione di Kursk, mette pressione, non mediatica, ma politica, da parte del Kanzleramt e della Casa Bianca, al presidente Zelensky, che ha sempre negato e ignorato le evidenze. In questa ottica il caso Nord Stream è solo un tassello del grande mosaico che compone il conflitto di logoramento tra Russia e Ucraina e la NATO. E lo stesso si può dire appunto dell’offensiva di Kiev in territorio russo. In questa fase della guerra, con le truppe ucraine in difficoltà su tutto il fronte e dopo aver incassato la sconfitta diplomatica del Bürgenstock due mesi or sono, Zelensky era in qualche modo arrivato ad aprire a trattative alla Russia, aveva parlato di eventuale referendum per la concessione di territori, in attesa anche dell’esito delle elezioni statunitensi di novembre e la prossima conferenza di pace con la partecipazione di Mosca che a suo dire avrebbe dovuto tenersi proprio entro la fine di quest’anno.
Poi l’ordine improvviso, dieci giorni fa, di marciare verso Kursk. Il mandato di cattura europeo della Procura tedesca contro uno dei responsabili di Nord Stream risale allo scorso giugno, benché sia divenuto pubblico solo ora. A Kiev si sapeva che le carte sarebbero state preso scoperte, creando nuovi malumori pubblici e non è da escludere che anche ciò abbia influito sulla decisione di oltrepassare in confine verso la Russia in una missione dai molteplici scopi: sia per mettere in difficoltà Putin, che per ammorbidire gli alleati prospettando almeno un successo parziale. Anche se resta da vedere come andrà davvero a finire.
Notiziario
Notiziario 14.08.2024, 11:00
Contenuto audio