Pare che prima di entrare in carica Joe Biden e i suoi assistenti abbiano letto biografie e scartabellato libri di storia su Franklin Delano Roosevelt. Al presidente che in America ha l’onore di un acronimo, FDR, sembra ispirarsi il 46esimo inquilino della Casa Bianca. Nell’azione di Biden sembra intravedersi un comune sentimento di urgenza dinanzi alle difficoltà del paese, un numero record di ordini esecutivi e ora, dopo la maxi-manovra per rilanciare l’economia dopo la pandemia, il più grande piano di investimenti infrastrutturali dal Dopo Guerra. L’“American Jobs Plan” presentato da Biden prevede ben duemila miliardi di dollari per rinnovare e ammodernare strade, sistemi di trasporto, reti energetiche e informatiche, case di cura, industria e ricerca.
Duemila miliardi di dollari per rinnovare
Così come il pacchetto anti-Covid andava oltre la semplice emergenza pandemica (con riforme strutturali come, ad esempio, gli sgravi fiscali per i figli), anche il nuovo piano infrastrutturale non si limita a strade, ponti e ferrovie ma tocca ambiti come la protezioni dei lavoratori e la svolta energetica del cambiamento climatico cari ai Democratici. Ma risponde pure a un’evidenza condivisa negli Stati Uniti, tanto che pure Donald Trump l’aveva inserito invano nel suo programma. Stando ai dati diffuse dalla Casa Bianca, gli Stati Uniti hanno solo la tredicesima rete infrastrutturale al mondo, dietro a Svizzera, Spagna e Regno Unito, tra gli altri.
Qualità delle infrastrutture
Dopo il piano ecomico e quello infrastrutturale, dall’Amministrazione Biden hanno già fatto trapelare l’intenzione di presentare una terza maxi-manovra per famiglie e sanità. Un simile slancio nei primi cento giorni dall’insediamento che secondo molti osservatori e analisti echeggia il vasto programma di riforme sociali ed economiche varato da Roosevelt negli Anni Trenta per traghettare l’America fuori dalla Grande Depressione. Ma per James Capretta, titolare della cattedra Milton Friedman all’American Enterprise Institute, think tank conservatore di Washington, è decisamente prematuro azzardare paragoni. "Non siamo nel 1933, quando FDR varò il New Deal, né nel 1965 quando Lyndon B. Johnson diede forma al progetto di Big Society – spiega l’economista al Telegiornale – Biden non ha la maggioranza per trasformare l’America , deve fare i conti con un Senato diviso a metà”
Ronald Reagan (s), Franklin Delano Roosevelt (d)
Se non si vuole scomodare Roosevelt, si può notare come Biden stia cercando di voltare pagina dopo quarant’anni dalla politica di Ronald Reagan, la filosofia del “Meno Stato”. Dal suo punto di osservazione dell’AEI, Capretta ammette la tentazione: “C’è un grande eccitamento tra i democratici che paiono voler ridurre l’influenza dei mercati, vogliono più regole, preferiscono sia il Governo a decidere quali investimenti fare, quasi a voler cancellare l’eredità di Reagan”. Ma l’economista conservatore rimane scettico sulla svolta bideniania: “Il Governo può influenzare l’economia americana, ma non può trasformarla, non è da americani che abbia un ruolo leader, trainante, nell’economia. Non siamo in Cina”.
Aumento delle imposte
A dividere Democratici e Repubblicani al Congresso sarà la modalità di pagamento del piano miliardario di investimenti strutturali. L’aumento di imposte per il “Great Old Party” è un tabù o, forse, solo il pretesto strategico per non sostenere un tema – le infrastrutture – caro ai Repubblicani, sia a livello federale che a livello locale. “È vero, riconosce Capretta, per i conservatori sembrerà tradire la narrativa che aveva permesso a Trump di fare breccia nella working-class e, in fondo, il fatto che i Democratici cercano di riappropriarsi di questo approccio economicamente populista fa parte dell’ironia odierna della politica americana”.