“In questo schedario, ci sono solo problemi”, sbuffa Khaled Abou el-Nour quando tenta di spiegare in cosa consiste il suo lavoro. “Io mi occupo di Affari sociali e sono membro del Comitato popolare. Funziona come una Municipalità, lui è il responsabile dell’Ambiente”, dice indicando un signore seduto su un divanetto e provocando una risata generale. A Shatila c’è un singolo albero. Ci sono montagne di spazzatura perché ci sono zero servizi da parte dello Stato libanese, che riconosce questa baraccopoli quale campo profughi insieme a una dozzina di altri, ma - non avendo firmato la Convenzione di Ginevra e considerandosi terra di transito – dal 1949, tratta questo luogo come una sistemazione temporanea.
È vero, la sua popolazione ha problemi di ogni sorta. “Viviamo stipati. 30mila persone in mezzo chilometro quadrato. Ci sono decine di professioni che non possiamo esercitare. Non girano soldi qui… Le Nazioni Unite non ci aiutano più perché le nuove emergenze scavalcano tutte le crisi precedenti rimaste irrisolte. Elimineranno l’UNRWA, l’Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi e così spazzeranno via anche il nostro diritto di tornare nella nostra terra, ma mica diventeremo libanesi”.
Un vicolo del campo profughi
A Shatila, le case sono tutte appiccicate, di spazio non ce n’è più, ci sono appartamenti in cui abitano 2 o 3 famiglie, eppure Khaled dice che c’è gente che cerca una sistemazione qui ogni minuto. Ci sono anche libanesi che arrivano perché, vittime di una crisi profondissima che dura da anni, non riescono a pagare un affitto in un quartiere ordinario della capitale.
“Alza lo sguardo”, dice mentre cammina per le viuzze, diretto da una famiglia di cui si occupa. “Guardala qui la crisi, ci sono cavi elettrici dappertutto, ogni anno qualcuno muore fulminato, lo sapevi?”. È facile crederci. I cavi elettrici sono spesso attorcigliati ai tubi dell’acqua.
Scopro pochi minuti più tardi che in questi tubi scorre acqua di mare. Acqua salata come la lacrima che quasi mi scende quando Rajaa usa la poca acqua dolce che ha a disposizione per sciacquare la tazzina in cui mi offre il caffè. “Rovina tutto. Ma almeno posso fare il bucato. È meglio di niente”, dice col sorriso.
Rajaa interrotta da suo marito Wael
La situazione è brutta a Shatila ed è peggiorata nel 2011, con l’arrivo di tanti Siriani, ma non si sono sentiti grandi cambiamenti con lo scoppio della guerra a Gaza e nel sud del Libano, che qui la gente segue ossessivamente.
“Ieri notte, mi hanno svegliato. Festeggiavano perché Hamas ha ucciso e catturato dei soldati israeliani. Ci ritroviamo per strada, mangiamo dei dolci, li offriamo ai vicini”, dice Rajaa interrotta da suo marito Wael che aggiunge: “Si stanno tutti spaccando la testa contro il muro. Netanyahu, gli Stati Uniti, l’Europa e pure i Paesi arabi. Non ci sostiene nessuno, nessuno si cura di noi palestinesi, eppure guarda, Hamas sta resistendo. Ora siamo pronti”.
Pronti a vincere con il sostegno dell’Asse della resistenza che in questa casa è presente dappertutto. La Tv trasmette solo al-Mayadeen, canale di Hezbollah. La Jihad islamica consegna pasti due volte a settimana, nelle serate di Ramandan e per le feste. Hamas controlla il campo anche se non ufficialmente. E poi c’è l’Iran, che qui è visto come il solo vero potente alleato, l’unico – secondo molti palestinesi di Shatila – in grado di intimidire Israele ed evitare una guerra regionale, il vincitore di una guerra che non è ancora finita.
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