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Abraxas: il palazzo del popolo

Abbiamo incontrato Ricardo Bofill - l’architetto dell’indecifrabile "Espace Abraxas" - che ci ha raccontato cosa significa "osare"

  • 22 dicembre 2018, 18:56
  • 22 novembre, 23:46
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Le palais du peuple

RSI/Davide Mattei 22.12.2018, 01:00

Palazzo retrofuturista, distopia totalitaria, Alcatraz, classicismo kitsch o circo romano con tocco sovietico: non c’è visitatore dell’Espace Abraxas che non provi a definire uno degli edifici più evocativi e inclassificabili della banlieue parigina. Questo teatro postmoderno – diviso in platea, palcoscenico e retroscena – è in realtà un edificio di oltre 600 appartamenti, parte dei quali sono in affitto, altri di proprietà e, la maggioranza, case popolari.

Costruito tra il 1978 e 1983 dall’architetto catalano Ricardo Bofill, voleva diventare un centro utopico all’interno del quale si sarebbero mescolate armoniosamente le classi sociali. La realtà è stata più brutale ed ha trasformato l’austero complesso in un ghetto trascurato dal comune di Noisy-le-Grand, coinvolto marginalmente nelle rivolte delle banlieues del 2005. L’Espace Abraxas si è così salvato dalla demolizione - richiesta dall’ex sindaco a inizio anni duemila - solo perché troppo onerosa.

L'ora della rivincita passa dal cinema

Il riscatto di questo luogo dall’architettura tanto imponente quanto evocativa è iniziato nel 2015: la serie americana Hunger Games ha girato al suo interno una decina di minuti di "Il canto della rivolta - Parte 2". Da allora è facile scoprire turisti venuti da tutto il mondo a gironzolare sui passi della star Jennifer Lawrence in questa struttura dove lo spaccio di droga è ancora una realtà.

Oggi Ricardo Bofill è stato chiamato dalla sindaca di Noisy-le-Grand, Brigitte Marsigny (LR), per ristrutturare il complesso e aggiungere due piccoli edifici sui lati che dovrebbero aiutare a far uscire Abraxas dal suo isolamento. “Ha ancora molta forza” ci ha detto Bofill tornando sul posto quarant’anni dopo. “È stata un’esperienza unica […] avevamo molta libertà e forse abbiamo osato un po’ troppo - ci ha confessato -, ma siamo contenti di averlo fatto”.

Davide Mattei

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