Si torna a parlare di loro ogni qualvolta un incidente sul lavoro o una frana imprevista tornano a mietere vite umane. È in quei casi che, per un attimo, i riflettori si accendono su uno dei lavori più pericolosi in assoluto: quello che avviene al buio, nelle viscere della terra. Poi, è vero, si parla di loro quando organizzano scioperi e bloccano tutto il traffico del paese. Ad agosto, in Bolivia, la protesta messa in scena dai minatori della provincia di Panduro è stata più cruenta che mai, e si è conclusa con la brutale uccisione del vice ministro degli Interni Rodolfo Illanes (vd correlati).
I minatori chiedevano più concessioni minerarie, norme meno stringenti per il rispetto dell’ambiente, il diritto a lavorare per aziende private e più rappresentanza sindacale. Illanes era andato a mediare con quei lavoratori che bloccavano la principale autostrada del Paese: questi lo hanno sequestrato, seviziato e linciato a morte, gettandone poi il cadavere a lato della strada.
Ma... la storia della Bolivia è da sempre connessa con quella del suo patrimonio minerario. A Potosì ci sono le miniere d’argento e di stagno che fecero la fortuna di tutta l’America Latina. Scoperta nel 1545, per oltre 200 anni è stata la più ricca città della colonia spagnola. Nel sedicesimo secolo aveva più abitanti di Parigi e Londra. Il nome della città divenne sinonimo di lusso: “Vale un Potosì”, scrisse Cervantes nel suo Don Chisciotte.
Oggi sono oltre ventimila i minatori che lavorano nel Cerro Rico, la montagna sulla quale si distende la città. Organizzati in Cooperative, spesso privi dei dispositivi di sicurezza, hanno un'aspettativa di vita bassa, a causa delle continue esalazioni di minerale e polvere. Siamo andati a conoscerli, abbiamo provato a capire qualcosa in più del legame che li unisce col “ventre della terra”, un legame che ,per gli abitanti di Potosì, ha un significato simbolico e totalizzante.
Romina Vinci