Non solo il dibattito sui “moretti” di cioccolato. Le proteste antirazzismo partite dagli Stati Uniti e arrivate anche in Svizzera con il movimento “Black Lives Matter” hanno suscitato una nuova sensibilità nei confronti del nostro passato. E hanno spinto molti a guardare con occhi nuovi ad alcune statue sulle nostre piazze. Simboli che in altri paesi sono stati abbattuti: come a Bristol in Inghilterra, dove la statua di Edward Colston, trafficante di schiavi, è finita in mare. Ma anche a Neuchâtel lo scorso luglio una vernice rosso sangue ha imbrattato la statua di David de Pury, benefattore della città arricchitosi grazie al traffico di schiavi.
La statua di David De Pury a Neuchâtel, imbrattata lo scorso luglio
Un confronto con il passato – con il colonialismo senza colonie della Svizzera – che non è più solo materia degli storici. A Neuchâtel una petizione che chiede di rimuovere la statua di David de Pury ha raccolto più di 2'500 firme. E non sembra più intoccabile sul suo piedistallo alla stazione di Zurigo nemmeno uno dei padri della Svizzera moderna: Alfred Escher, lui che non possedette mai schiavi o piantagioni, ma il cui padre e zio si arricchirono grazie allo sfruttamento degli schiavi oltreoceano. Il municipio di Zurigo ha avviato un’analisi critica su 26 monumenti sparsi per la città, per capire come rendere visibile il passato coloniale della città. Per la sindaca Corine Mauch sarebbe però sbagliato prendere di mira solo Alfred Escher, focalizzare l’attenzione su un singolo personaggio. Perché gli intrecci con il colonialismo e la schiavitù erano profondi e articolati nella Zurigo del 17esimo fino al 19esimo secolo, come ha dimostrato uno studio commissionato dalla città alla cattedra di storia dell’Università di Zurigo.
RG 18.30 del 29.09.20 - La corrispondenza di Gianluca Olgiati
RSI Info 04.10.2020, 22:40
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Si scopre così che la stessa città di Zurigo investì nel 18esimo secolo nella tratta di schiavi, acquistando azioni della britannica South Sea Company. Per lo storico Frank Schubert, uno degli autori dello studio, “la città partecipò così alla deportazione di 36'494 schiavi africani sulle navi di questa compagnia”. Ma anche l’importante industria tessile zurighese si riforniva dalle piantagioni di cotone che sfruttavano gli schiavi nel sud degli Stati Uniti. Da queste società nacquero poi alcune delle grandi aziende dell’industria delle macchine, come la Escher Wyss AG, che contribuirono alla modernizzazione e al benessere della Svizzera.
Il monumento ad Alfred Escher alla stazione di Zurigo. Un ampio dibattito è ora sorto sui legami fra la sua famiglia, il mondo coloniale e la schiavitù
Intrecci con la schiavitù che non riguardano solo Zurigo. Il Re di Danimarca cercò e ottenne finanziamenti per il suo commercio di schiavi nelle Antille anche in altre città come Ginevra o Basilea. La città di Berna era addirittura la principale azionista della South Sea Company. In totale, gli storici ritengono che le partecipazioni svizzere contribuirono direttamente o indirettamente alla deportazione di 170'000 schiavi.
Come leggere oggi quei fatti? Condannarli significa applicare i valori morali contemporanei a un’epoca in cui la schiavitù era ampiamente accettata? Non proprio, secondo lo storico Frank Schubert: “A Zurigo già dall’inizio del 19esimo secolo vi fu un cambiamento, la schiavitù era considerata riprovevole, ma al contempo ci si preoccupava per le possibili ripercussioni che un’abolizione della schiavitù avrebbe avuto sull’industria del cotone.”
A dimostrazione di come la schiavitù fosse considerata moralmente riprovevole vi è il fatto che lo stesso Alfred Escher si batté in tribunale contro le accuse di schiavismo. Difficile per gli storici dire quanto del patrimonio ereditato da Alfred Escher derivasse dallo sfruttamento degli schiavi. Che fare allora con il suo monumento in stazione? Rimuoverlo, come alcuni vorrebbero, sarebbe la soluzione sbagliata secondo Frank Schubert: “I monumenti vanno discussi, inseriti in nuovi contesti. Abbatterli significa interrompere la discussione. Io credo invece che le discussioni, anche controverse, vadano affrontate.”
Gianluca Olgiati