C’è la foto di un uomo e di una donna davanti a un asciugamano macchiato di sangue poggiato su un lettino. Non si capisce subito che sono nella stanza di un ospedale, perché sembra più un sottoscala dismesso. Non si capisce subito che piangono. Non si capisce subito che quel fagottino è il loro bebè, morto ammazzato. Una delle molte, troppe, vittime innocenti di questa ennesima guerra.
C’è una sagoma, è una radiografia con dei puntini che segnano il corpo. La didascalia dice che si tratta di un ragazzo appena rimasto orfano, dilaniato dalle schegge di una granata, o forse da quelle di un colpo di artiglieria, che differenza può fare? È ancora vivo. Lotta per restare vivo.
C’è il video che mostra un uomo che cerca di farsi schermo con un braccio, un fischio, poi un botto, lo spostamento d’aria, una fiammata, il fumo. È un colpo caduto in strada. Ci sono guardie che corrono, prestano soccorso. Seguono le istantanee. Si vede una donna, forse una bambina, un trolley, una gabbietta per animali, non si distingue bene, corpi e oggetti si confondono. Erano una famiglia, stavano cercando un riparo, una via di fuga, li ha colti una guerra assurda – non sono forse tutte assurde, le guerre? – e con loro tanti altri.
Queste immagini si possono sfumare, schermare, fermare un istante prima che il dramma si consumi e da lì in avanti, solo raccontarle. Mostrarle completamente sarebbe una nuova violenza per le vittime. Se esiste una pornografia della guerra, la soglia è questa e non vogliamo varcarla. Chi muore perché colpito da una bomba piovuta dal cielo, ha almeno il diritto di vedersi restituire la dignità e il rispetto.
Non c’è nulla di speciale in queste immagini. Nulla di straordinario. Nulla di mai visto. Mostrano una crudeltà ricorrente. Un dolore che si ripete ogni volta. Non spiegano nulla. Non anticipano nulla. Non rivelano nulla. Sono le stesse in ogni guerra, in ogni attentato, in ogni dramma umanitario. Lacrime, sangue e sofferenza. Non hanno mai cambiato nulla, non hanno mai fermato nessuno, finiranno in un libro di storia, insieme a tutte le altre. Quella storia continuerà a ripetersi finché qualcuno metterà una pistola sul tavolo. Inevitabilmente finirà con l’essere usata, quella pistola. E in mezzo ci andranno i soliti, gli innocenti.
Ma dobbiamo descriverle quelle immagini di morte. Traslare in parole ciò che si vede. Ecco, questo è un atto dovuto. Per rendere giustizia al pubblico che cerca di capire e alle vittime che ormai non possono più fuggire. La potenza di un racconto si realizza quando chiudendo gli occhi, la scena descritta si materializza comunque. In un modo diverso per ciascuno, in base all’esperienza, ai ricordi e alla propria sensibilità. O speranza.
Ucraina, corridoio umanitario bloccato
Telegiornale 06.03.2022, 21:00