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Vita dei campi profughi

Gli sfollati iracheni nel Kurdistan: nel campo di Ashti sunniti, sciiti e yazidi vivono insieme, perché la condizione di chi ha perso tutto annulla quello che si era prima

  • 30 settembre 2018, 17:01
  • 23 novembre, 00:12
03:37

Arbat - Un finis terrae dell’esistenza

RSI/Paola Nurnberg 30.09.2018, 16:57

Dove la vita sembra finire, a volte è proprio dove la vita invece riprende. Come accade in questo finis terrae dell’esistenza, a pochi chilometri da Sulaymaniyah, nel Kurdistan iracheno. Arbat, un piccolo comune di appena tremila abitanti, ospita due campi profughi che accolgono oltre 20'000 persone. Mentre in tutta la provincia di Suly - come si dice qui - secondo le ultime statistiche dell’Organizzazione internazionale per la migrazione, gli sfollati interni sono circa 150’000. Ma per la prima volta da quando nel 2014 è scoppiata la guerra contro lo Stato islamico, in tutto l’Iraq il numero di sfollati interni è sceso sotto i due milioni (all’inizio erano sei milioni, cioè il 15% dell’intera popolazione).

Farah, 27 anni, senza un braccio, prima di ricevere la protesi si vergognava cercava sempre di nascondersi

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  • RSI/PN

Chi ancora non ha potuto fare ritorno a casa però, continua a muoversi nella sua precaria realtà con l’aiuto dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati, Unhcr, e le ONG. Ashti, che in curdo vuol dire “pace”, è uno di quei campi, in cui oggi vivono undicimila sfollati interni - la metà dei quali ha meno di 14 anni - anche se durante il picco della crisi erano oltre 18’000. Una prova di tolleranza tra sunniti, sciiti e yazidi, uniti dalla stessa sorte. Perché la condizione di profugo azzera quello che si era prima. Appiattisce ogni cosa e mette praticamente tutti sullo stesso livello. Si riparte allora curando il proprio modesto alloggio e facendo dei piccoli lavori, c’è chi trova un’occupazione in città come muratore, o pulendo le strade per conto del governo locale. Campi in cui la vita scorre, e si rinnova anche, dato che qui si contano in media 10-15 nascite alla settimana. Sono cifre fornite dall’Ong italiana Emergency, che all’interno di Ashti ha aperto una clinica, mentre nel centro di Sulaymanyiah ha inaugurato 20 anni fa un centro riabilitazione per le vittime di guerra, dove vengono curati e seguiti coloro che hanno perso un arto. L’Iraq infatti è tra i primi paesi al mondo ad avere il maggior numero di vittime a causa delle mine. Da allora sono stati presi in carico oltre 20'000 amputati, oggi, tra di loro, ci sono molti giovani. Molti arrivano da Mosul.

Paola Nurnberg

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