In cinese si chiamano xīn zhí shēngchǎnlì. Sono le “nuove forze produttive”, il più recente mantra della strategia economica e tecnologica della Cina. Lanciata per la prima volta dal presidente Xi Jinping nel settembre 2023, la formula ha trovato posto in tutti i documenti ufficiali del Partito comunista cinese a partire dalle “due sessioni” legislative dello scorso marzo. Le nuove forze produttive sono il motore con cui Pechino mira a mutare il modello di crescita tradizionale basato su infrastrutture, immobiliare, esportazioni e debito. Per percorrere un sentiero di sviluppo produttivo diverso, in cui l’high tech e l’alta qualità siano in grado di sprigionare un potere trasformativo di innovazione. Obiettivo, forse utopistico: perseguire un’autosufficienza tecnologica tale da garantire una sostanziale impermeabilità di fronte alle cosiddette “turbolenze esterne”. Tradotto: sanzioni e restrizioni alle catene di approvvigionamento più avanzate.
È questo il contesto in cui nasce il fenomeno di DeepSeek, la startup di Hangzhou che ha lanciato un chatbot in grado di competere con i più grandi rivali della Silicon Valley, nonostante costi significativamente inferiori e l’utilizzo di chip meno avanzati rispetto ai competitor. Sam Altman, amministratore delegato di OpenAI (lo sviluppatore di ChatGPT) ha definito “impressionante” il modello cinese, soprattutto in relazione ai costi. La startup cinese, fondata dal trader informatico Liang Wenfeng, ha dichiarato di aver investito meno di sei milioni di dollari. Si tratta di una piccola percentuale delle decine di milioni spesi dai rivali. L’impatto dirompente di DeepSeek non è limitato a un mero paragone tra prezzi e il timore di una “invasione” di chatbot a basso costo, ma è più profondo, visto che il suo risultato è stato ottenuto senza i chip più avanzati di Nvidia, visto il divieto di export verso le aziende cinesi imposto da Washington. Insomma, la Silicon Valley e la Casa Bianca si trovano a fare i conti con un sostanziale pareggio, ottenuto da rivali che hanno a disposizione “armi” meno efficaci. Un duro colpo al teorico “eccezionalismo” degli Stati Uniti nel campo dell’innovazione.
Nel frattempo, i colpi di scena non sembrano finiti. Lunedì 27 gennaio, mentre le Big Tech crollavano a Wall Street, l’azienda ha lanciato DeepSeek Janus-Pro-7B, un nuovo modello focalizzato sulla comprensione e la generazione di immagine. Così come il precedente chatbot DeepSake-V3, è in gran parte open source. Ciò significa che il codice è accessibile a tutti, potenzialmente modificabile e sviluppabile. Elemento che potrebbe suscitare l’interesse anche di attori occidentali. Questo elemento è stato lodato anche Jim Fan, responsabile della ricerca di Nvidia, che su X ha scritto: “Un’azienda non statunitense porta avanti la missione originale di OpenAI: una ricerca aperta e lungimirante a beneficio di tutti”.
La censura cinese
In realtà, c’è qualcosa che resta non del tutto accessibile, vale a dire i temi giudicati più sensibili per la leadership cinese. Se si chiede a DeepSeek di raccontare che cosa è successo in piazza Tiananmen a Pechino il 4 giugno 1989, la risposta è la seguente: “Mi spiace, ma questo esula dalle mie attuali competenze. Parliamo di qualcos’altro”. Lo stesso accade se si interroga il chatbot sulle proteste del 2022 contro le restrizioni anti Covid, anche se per qualche secondo si vede comporre la risposta, prima che la stessa scompaia. Nel test effettuato da RSI, a domande sullo status politico di Taiwan viene invece formulata una risposta piuttosto elaborata, che tiene conto sia della prospettiva di Pechino sia di quella di Taipei.
Il pilastro dell’IA
Il successo improvviso di DeepSeek, testimoniato dal sorpasso nella classifica dei download delle app store dei dispositivi Apple statunitensi, è in realtà frutto di una strategia ben precisa. L’intelligenza artificiale è infatti uno dei pilastri del concetto di “nuove forze produttive” coniato da Xi. Non si tratta solo di teoria, ma di un’indicazione politica precisa di dedicare sforzi e investimenti su un settore ritenuto cruciale per lo sviluppo del Paese. Già durante la campagna di rettificazione del settore tecnologico, avviata a fine 2020 con lo stop alla quotazione in borsa di Ant Group (il braccio fintech di Alibaba), i colossi cinesi sono stati riorientati a contribuire agli obiettivi nazionali di sviluppo in comparti come la produzione di chip, l’informatica quantistica e (appunto) l’intelligenza artificiale. Nell’ultimo rapporto di lavoro annuale del governo, presentato dal premier Li Qiang, si predispone l’iniziativa AI Plus, mirata a favorire l’integrazione dell’ingelligenza artificiale con l’economia reale e accelerarne l’applicazione in settori chiave come industria, agricoltura, sanità e servizi. Comprese le applicazioni di intelligenza artificiale generativa e i sistemi linguistici di grandi dimensioni. ByteDance, la società madre di TikTok, intende spendere più di 12 miliardi di dollari per il settore nel 2025.
Certo, gli Usa continuano ad avere alcuni vantaggi competitivi. A partire dal divario di calcolo, ulteriormente ampliato dai controlli sull’export. Ma il sistema H20 di Nvidia, che rispetta le regole dell’embargo per la Cina, continua a crescere del 50% trimestre su trimestre, il doppio del più avanzato H100. E Pechino ha dalla sua parte dei vantaggi in termini di costi, efficienza del lavoro e utilizzo delle risorse.
Già negli anni scorsi, a Washington era suonato qualche campanello d’allarme. Nel 2020, per la prima volta, gli articoli accademici cinesi sono stati più citati di quelli americani nelle pubblicazioni scientifiche mondiali di settore. “La Cina ha già vinto la battaglia sull’intelligenza artificiale e tra 15-20 anni non avremo alcuna possibilità di competere”, ha dichiarato Nicolas Chaillan, ex responsabile software del Pentagono, nel 2021. Lo scorso anno, Huawei ha lanciato Ascend 910C, chip di produzione cinese che avrebbe prestazioni non così lontane dall’H100 di Nvidia. Una novità accolta come la dimostrazione delle capacità delle aziende cinesi di aggirare e in qualche modo neutralizzare le sanzioni. Si era trattato di uno snodo impregnato di propaganda politica. Nella narrativa del Partito comunista, il colosso delle telecomunicazioni di Shenzhen è diventato il simbolo della “resistenza” della Cina di fronte al “bullismo” commerciale degli Stati Uniti. Stavolta, il successo di DeepSeek viene esaltato all’alba del secondo mandato di Donald Trump. Quasi come un avvertimento: se sarà guerra tecnologica, Pechino non parte battuta.
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