È una tecnologia che preoccupa molto. Lo dicono gli esperti sentiti dalla RSI a proposito dI Predator. Un software spia contro cui è stata aperta un’inchiesta del Ministero pubblico della Confederazione e per il quale un fiduciario ticinese è finito sotto sanzione negli Stati Uniti.
“Si tratta di un software progettato per rubare”, dice Ruairi Nolan, che guida per Amnesty International il “Security Lab”: il laboratorio di ricerca sulla sicurezza. “È stato catalogato da Amnesty International come uno spyware altamente invasivo - continua Nolan -. Sviluppato per prendere tutte le informazioni presenti, per esempio, su un telefonino, tutte le e-mail e tutti i messaggi, e può anche accedere alla fotocamera o al microfono. Ovviamente ha un impatto enorme sull’individuo che viene preso di mira. Tutta la sua vita viene esposta. E anche un effetto sulla società, perché questa tecnologia viene usata in diversi Paesi contro oppositori politici, giornalisti e attivisti per i diritti umani”.
Un esempio? “Mettiamo che ad essere preso di mira sia un giornalista. Avrà un effetto sulla sua vita, ma può anche averne sulle sue fonti che potrebbero decidere di non passargli più informazioni per paura di venir spiate. Ma succede anche altro. Attivisti per i diritti umani, per esempio, che gettano la spugna, smettono perché non ne possono più”.
Amnesty International, spiega Nolan, “chiede alla Svizzera, come a tutti i Paesi, di avere un sistema di monitoraggio e controlli adeguati sulle esportazioni di prodotti che possono avere un doppio uso, sia civile che militare. Serve una collaborazione tra nazioni. Gli Stati devono assolutamente scambiarsi le informazioni”.
“Per la Svizzera sarebbe un grande rischio restare isolati”
La vicenda di Predator si inserisce in un fenomeno vasto e attuale, spiega ai microfoni della RSI Alessandro Curioni, esperto di cybersicurezza e docente all’Università Cattolica di Milano.
“È l’ultima frontiera dello spionaggio su vasta scala”, dice l’esperto. “Sono sistemi di intercettazione che, una volta raggiunto l’obiettivo, sono in grado di catturare qualsiasi tipo di comunicazione e facilmente possono sfuggire al controllo di chi legittimamente potrebbe usarli, per esempio le forze dell’ordine”.
Le società che sviluppano questi software, spesso “sono gestite da persone che arrivano da mondi legati ai servizi segreti”, conferma Curioni, “o da zone limitrofe, perché il loro primo mercato comunque sono gli Stati. In una situazione come quella della società dell’informazione, dove i confini non esistono, dove il concetto di territorialità, che è la base della sovranità di uno Stato, è nella migliore delle ipotesi molto labile, è evidente che ci sono operatori che si possono muovere in Stati dove i controlli non esistono e vendere ad altri Paesi, i cosiddetti Stati canaglia, come li chiamavano una volta, degli strumenti che sono terribilmente potenti”.
Non è la prima volta che questi software passano, in un modo o nell’altro, dalla Svizzera. Alcuni sono stati addirittura qui progettati. Il rischio è che il territorio della Confederazione venga utilizzato per promuovere questo tipo di attività. Le possibili contromisure?Da un lato, è ovvio che gli Stati si trovano di fronte a una crisi del loro potere giurisdizionale. Una caratteristica del crimine informatico è tipicamente la transnazionalità. Ovviamente ci deve essere un controllo interno, perché tutta una serie di ‘peculiarità’ della Svizzera spesso vengono sfruttate per sfuggire alle maglie di qualcun altro. Ho trovato interessante l’allineamento elvetico al Regolamento europeo sulla protezione dei dati, quindi è chiaro che tanto più un paese che è solo si avvicina e riesce a stringere accordi con entità molto più grandi, tanto più facile, probabilmente, sarà quello di tutelarsi. Certo: restare soli nella società dell’informazione, per una qualsiasi nazione che non sia gli Stati Uniti o la Cina, è un grande rischio”.
RG 7:00 del 10.10.2024 Il servizio di John Robbiani
RSI Info 10.10.2024, 07:12
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