“Stiamo cavalcando un cavallo morto?”, si è chiesto nei giorni scorsi il democentrista turgoviese Jakob Stark, presidente della Commissione delle finanze del Consiglio degli Stati. La Svizzera, afferma, deve riflettere se voglia davvero continuare ad applicare la global minimum tax, l’imposizione minima globale del 15% sugli utili delle imprese attive a livello internazionale che fatturano 750 milioni di euro o più l’anno. Un’imposta concordata in seno a G20 e OCSE, così da “mettere tutti sullo stesso piano”, come ricordato nei giorni scorsi a Keystone-ATS da Quentin Parrinello dell’Osservatorio europeo della fiscalità. Il popolo svizzero aveva approvato il principio con il 78,5% dei voti il 18 giugno del 2023 (si trattava di una modifica costituzionale). L’applicazione avviene oggi tramite ordinanza, un progetto di legge del Consiglio federale è atteso nei prossimi anni.
La Svizzera fin qui ha tenuto fede agli impegni internazionali assunti nel 2021 da circa 140 Paesi e all’inizio del 2024 ha messo in vigore una prima parte della sua riforma fiscale. Da gennaio si è aggiunto un secondo elemento, mentre al terzo Berna ha – almeno per il momento – deciso di rinunciare. E vedremo in seguito nel dettaglio di cosa si tratta.
La Confederazione “è stata una dei primi Paesi” a implementare l’intesa, conferma Francesca Amaddeo del Centro competenze tributarie e giuridiche della SUPSI. Berna ha privilegiato la certezza del diritto. In questo modo “ha evitato che altri Paesi andassero a erodere la sua base imponibile” e che le multinazionali elvetiche si impantanassero in burocrazie estere.
A Berna per ora si discute, di nuovo, della spartizione dei proventi
Il dibattito politico svizzero, che ha spinto Stark alla provocatoria domanda, si concentra però ora (di nuovo) su un altro aspetto, la ripartizione dei proventi generati dall’imposta. Dopo lunghe discussioni, il Parlamento si era accordato nel dicembre del 2022 su una quota del 75% per i Cantoni e una del 25% per la Confederazione, ma la Commissione che l’esponente dell’UDC presiede, quasi all’unanimità vuole tornare sui suoi passi e optare per il 50-50. I maggiori mezzi di cui Berna disporrebbe in questo modo andrebbero a finanziare l’aumento della spesa militare. I Cantoni però non ci stanno a vedere le regole del gioco cambiare dopo un solo anno e i direttori cantonali delle finanze lo hanno scritto a chiare lettere in una missiva indirizzata ai consiglieri agli Stati e rivelata la settimana scorsa dall’Aargauer Zeitung. Questo nell’attesa che la Confederazione presenti cifre su quanto l’imposta porti effettivamente nelle casse pubbliche: inizialmente per il primo anno si stimavano fra 1 e 2,5 miliardi di franchi.
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RG 12.30 del 06.02.2025 Il servizio di Gian Paolo Driussi
RSI Info 11.02.2025, 15:06
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Il “no” di Donald Trump
Perché allora – per restare nella metafora di Stark - il redditizio cavallo potrebbe essere morto? Perché l’economista francese Gabriel Zucman, il direttore dell’Osservatorio europeo della fiscalità, il 20 gennaio su Le Monde scriveva che l’accordo “è sotto assistenza respiratoria”?
Perché fin qui numerosi Paesi “economicamente rilevanti per la Svizzera” – per usare i termini del Dipartimento federale delle finanze – hanno deciso di applicare uno o più elementi del progetto. Fra questi la maggior parte dei membri dell’UE, il Regno Unito, il Giappone, il Canada, l’Australia, la Corea del Sud, la Norvegia. Ma non tutti: non i cosiddetti BRICS, non - soprattutto - gli Stati Uniti. Se sotto Joe Biden, ricorda Francesca Amaddeo, quantomeno “c’era la volontà” di arrivare a un’implementazione, ora il vento è cambiato.
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Donald Trump non intende applicare l'imposizione minima
Appena tornato alla Casa Bianca, Donald Trump ha subito detto che l’intesa “non ha né forza né effetto” sugli Stati Uniti e ha minacciato ritorsioni contro i Paesi che applicano tasse ritenute discriminatorie o extraterritoriali. Per Vincent Simon di Economiesuisse, intervistato lui pure da Keystone-ATS, è presto per valutare le conseguenze ma lo stop di Washington “è fastidioso per la Svizzera”, che con “una minoranza di Stati” ha già adottato le proprie disposizioni. “Non abbiamo più un’offerta migliore degli altri e se gli Stati Uniti non applicano la tassazione minima, altri Paesi seguiranno l’esempio”, afferma. Per Olivier Eichenberger, della società di consulenza KPMG, la Confederazione dovrà quindi “riconsiderare se il sistema in vigore è quello giusto” e farebbe meglio - sostiene - ad adottare un atteggiamento attendista.
Il destino della “global minimum tax” è quindi segnato? “È una domanda difficile”, risponde Francesca Amaddeo, “è troppo presto per dirlo” e “le opinioni sono contrastanti”. L’Unione Europea ha diramato la sua direttiva e, anche se non ancora recepita da tutti i membri, è per loro obbligatoria. C’è quindi anche chi ritiene che “ormai è partita e che la base è solida”, per quanto certamente “perda efficacia” con l’assenza di Washington, sotto la cui giurisdizione ricade un numero significativo delle aziende interessate.
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Karin Keller-Sutter a Davos ha messo in guardia dalla perdita di competitività elvetica
Che la Svizzera si trovi “in una fase critica”, stretta fra le pressioni dell’UE e gli Stati Uniti che non seguono le medesime regole degli altri, lo ha comunque riconosciuto anche la ministra delle finanze e presidente della Confederazione Karin Keller-Sutter in gennaio al Forum economico mondiale di Davos. La “minimum tax” in vigore da oltre un anno ha portato a una “perdita di competitività”, ha affermato.
Allo stesso tempo, però, sdrammatizza Eichenberger, non bisogna dimenticare che “anche negli altri Paesi in cui è in vigore l’accordo le multinazionali sono tenute a versare un minimo di imposta”. E fra questi, sottolinea Amaddeo, “ci sono tutti i nostri vicini”.
In cosa consiste l’imposizione minima globale
Inizialmente pensato per le grandi imprese digitali internazionali, un sistema a due pilastri è stato infine elaborato dopo lunghe trattative per l’intera economia internazionale.
1) Il primo pilastro è una risposta alle imposte sui servizi digitali introdotta da diversi Paesi. Riguarda multinazionali con oltre 20 miliardi di euro di fatturato e margini di utile sopra il 10% e vuole determinare dove queste pagano le imposte, limitando i trasferimenti di profitti dai luoghi dove sono effettivamente stati conseguiti verso “paradisi” a bassa tassazione. Concerne in particolare i colossi dell’economia digitale, in gran parte americani. Le discussioni su questo pilastro non sono ancora arrivate a conclusione, “insabbiate” di fatto dagli Stati Uniti con la scorsa amministrazione democratica.
2) Il secondo pilastro introduce la “global minimum tax” del 15% e si compone di tre elementi. Prendendo a prestito la spiegazione della SECO, la Qualified Domestic Minimum Top-Up Tax (QDMTT), già in vigore in Svizzera dal 1° gennaio 2024, “garantisce che i gruppi di imprese siano assoggettati all’imposizione minima nel proprio Stato di appartenenza”. In secondo luogo l’Income Inclusion Rule (IIR) “garantisce l’imposizione minima anche di tutte le unità operative estere, presso la società madre capogruppo (o una holding intermedia), se non sono soggette a un’imposizione minima all’estero”. Questa è applicata dalla Confederazione a partire dal 1° gennaio di quest’anno. Infine, “quale fattispecie completiva”, l’Undertaxed Payments Rule (UTPR) “garantisce invece l’imposizione minima di tutte le unità operative di un gruppo di imprese, anche per gli utili sottotassati che non sono soggetti né a una QDMTT né a un’IIR”. A questa Berna ha finora rinunciato, ritenendo che i rischi di una sua applicazione superino i possibili vantaggi finanziari, anche sulla base di una perizia del professor René Matteotti dell’Università di Zurigo. Come spiega Francesca Amaddeo, su una sua applicazione pesano anche dubbi giuridici che riguardano violazioni di convenzioni e della sovranità fiscale di altri Paesi.
In Svizzera l’imposizione minima è andata a toccare poche centinaia di gruppi elvetici e qualche migliaio di gruppi stranieri, su un totale di oltre 600’000 aziende attive nel Paese. Questo perché le altre o non sono attive a livello internazionale o non raggiungono il fatturato minimo per essere assoggettate. Le PMI locali non sono quindi toccate.
In attesa di sviluppi, almeno ufficialmente Berna prosegue per la strada tracciata. Ultime decisioni in ordine di tempo: dapprima quella di mettere in vigore l’IIR dal gennaio di quest’anno, adottata in settembre dal Consiglio federale. Servirà ad evitare che utili che conseguiti all’estero ma che possono essere tassati in Svizzera finiscano con l’essere “recuperati” da altri Paesi che - a differenza della Confederazione - hanno adottato l’UTPR. Il 29 gennaio, poi, il Governo ha messo in consultazione fino a maggio lo scambio di informazioni internazionale, il “meccanismo di controllo” che permetterà agli Stati di verificare la correttezza dei calcoli fiscali per le imprese multinazionali. Lo scambio dovrebbe avere inizio nel 2026.