L’intervista

Vittime di stupro poco credute

Metodi discontinui per giudicare la credibilità di chi denuncia una violenza carnale. Parla l’avvocata Demetra Giovanettina

  • 28 ottobre, 05:46
  • 28 ottobre, 08:52
07:30

SEIDISERA del 27.10.2024: il servizio di Alan Crameri

RSI Info 27.10.2024, 22:00

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Di: Alan Crameri 

Subire uno stupro è un’esperienza tremenda. Denunciarlo, e affrontare un processo, per la vittima significa aprire di nuovo la ferita psicologica.

Recentemente il Tribunale federale ha specificato che la durata breve di uno stupro non può essere un’attenuante. Ne è partita una discussione sulla commisurazione della pena per questi reati. Alla NZZ una procuratrice pubblica ha dichiarato che i tribunali non sfruttano tutto il margine di manovra, infliggendo spesso pene detentive di pochi anni per i violentatori, rimanendo lontani dai 10 anni massimi concessi dal Codice penale.

Ne abbiamo parlato con Demetra Giovanettina, avvocata presso lo studio legale Marcellini – Galliani, che ha già rappresentato in aula vittime di abusi sessuali.

Secondo la sua esperienza, le pene inflitte sono troppo lievi?

“L’elemento della pena è sicuramente importante. Ma ogni vittima ha aspettative diverse, e devo dire che le vittime animate solo dal desiderio di vendetta sono una minoranza. Infatti, secondo me, la commisurazione della pena non è l’aspetto più delicato, e non è nemmeno l’aspetto essenziale. Il punto cruciale per tutte le vittime è quello della condanna, cioè il fatto di arrivare a una sentenza che riconosca la vittima in quanto tale… che le si creda! Una condanna del violentatore diventa per la vittima uno strumento per provare a superare il trauma vissuto. A fronte di questa necessità fondamentale di riconoscimento da parte dell’autorità giudiziaria, che la sentenzia sia di quattro, cinque o sei anni, per me ha un peso relativo”.

Non è scontato quindi arrivare a una condanna?

“No. Parliamo di reati contro l’integrità sessuale, un campo difficile, nel quale avere testimoni o altri riscontri diretti di un fatto è l’assoluta eccezione. Quasi sempre abbiamo due versioni divergenti: quella della vittima e quella dell’imputato. La credibilità di questi due racconti diventa così il punto centrale di un procedimento. Il problema è che la valutazione della credibilità è un esercizio estremamente delicato e ci sono, a mio modo di vedere, due aspetti importanti che andrebbero sempre tenuti ben presenti. Il primo è che il racconto perfetto non esiste. Il secondo è che non esiste nemmeno la vittima perfetta. Non ci si può attendere che il racconto di una vittima sia come andare a leggere la trama di un film”.

Mi sta dicendo che i giudici si concentrano troppo su incoerenze nei ricordi e nei comportamenti della vittima?

“Capita che il filtro applicato al racconto di una vittima si concentri in modo che definirei eccessivo sui dettagli di questo racconto. Il rischio è quello di perdere di vista il racconto nel suo insieme. A volte poi capita che ci si faccia guidare dall’idea che si ha di come una vittima dovrebbe reagire, ad esempio di quanto tempo dovrebbe impiegare per denunciare lo stupro. In realtà c’è una varietà di reazioni diverse. Quindi, come non esiste un racconto perfetto, non esiste una vittima tipo. Bisogna sempre fare molta attenzione, come dicevo, a trarre delle conclusioni troppo certe”.

Faceva l’esempio del tempo impiegato per denunciare. Quali altri aspetti del comportamento di una vittima possono divergere da ciò che magari ci potremmo aspettare da chi ha subito uno stupro?

“Il fatto di confidarsi subito con famigliari e amici oppure di non dirlo a nessuno. Riprendere a vivere normalmente oppure rintanarsi in casa e non uscire. Cercare di dimenticare oppure cercare di fissare nella memoria tutti i particolari. Sono comportamenti diversi ma tutti legittimi, a seconda della vittima, e non possiamo avere la presunzione di sapere cosa sia giusto fare, perché non abbiamo vissuto quei fatti”.

Ciò che ci racconta è in contraddizione rispetto al clima legato al movimento “Me too”, quando – già qualche anno fa - si aveva un l’impressione che bastava denunciare per ottenere empatia e addirittura anche ragione. Non è così in tribunale…

“Non è così, e in realtà non deve essere così! Non sarebbe corretto se bastasse andare a denunciare per essere creduti, perché ci sono anche vittime che non dicono la verità, o che la raccontano solo in parte. Un’inchiesta serve idealmente a chiarire i fatti. Però, come dicevo prima, in questo tipo di reati il processo di valutazione della credibilità è estremamente difficile e delicato e può tradursi nella pratica in risultati discontinui e poco poco soddisfacenti. Così alla fine chi va a denunciare non necessariamente ha dalla giustizia la risposta che si attende, nonostante lo sforzo enorme del denunciare”.

E come fa a spiegare ad un cliente che – nonostante abbia investito tante energie emotive –alla fine l’imputato è stato assolto?

“Beh, non è facile. Soprattutto se bisogna dire che non è stata creduta la sua versione. È inutile nascondere che per la vittima si tratta di un colpo ulteriore, che si aggiunge a ciò che ha già subito”.

Questi dubbi sulla credibilità delle vittime potrebbero disincentivare le denunce?

“Bisogna essere coscienti che non c’è la certezza di essere creduti. Ma il fatto di denunciare ha un valore in sé, che a volte va al di là della sentenza. La vittima potrebbe rimproverarsi, dopo qualche anno, di non aver tentato la via legale. Potrebbe rimpiangere di non aver portato alla luce quella storia, e così complicare l’elaborazione dei fatti. Ogni vittima deve fare le sue valutazioni, ma ribadisco: denunciare ha un’importanza in sé, al di là dell’esito, che purtroppo non è garantito”.

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