La serie Netflix “Ni una más” (“Non una di più”) è tratta dal romanzo di Miguel Sáez Carral, giornalista, sceneggiatore, nato nel 1968, uomo. La trasposizione in 8 puntate ha come regista Eduard Cortés, uomo. Sempre Netflix recita che è stata creata da José Manuel Lorenzo insieme all’autore del libro, uomini.
Il titolo ricalca il nome del più importante movimento transfemminista globale, Ni Una Menos (Non Una Di Meno), ma di transfemminista nella serie, come si può intuire dalla sovrabbondanza di nomi maschili perfino nella colonna sonora (a cura di Lucas Vidal, uomo), non c’è molto.
Il male gaze è furbo e nascosto dietro questo femminismo rivendicato fin dal titolo, e dietro un argomento importante come lo stupro. Peccato che una penna transfemminista non avrebbe mai dato vita a una serie del genere. Intanto, la violenza sessuale per tutte le prime puntate viene usata come elemento mystery, come se scoprire chi ha violentato Alma fosse un giallo. Un consiglio per chi vuole avvicinarsi all’argomento: se la trama per andare avanti ha bisogno di trasformare i vuoti di memoria di una donna violentata in un enigma, forse la trama non ha niente da dire.
La pornografia del dolore è alle stelle, lo sguardo sulle giovani donne - solo apparentemente antisessista - è quello di chi non si fa problemi a far fare selfie con un dildo in mano a minorenni mentre giocano con le amiche; con la scusa dell’emancipazione le ragazze vengono sessualizzate, e non aiuta il fatto che siano tutte perfettamente corrispondenti ai canoni di bellezza correnti.
La violenza parentale è rappresentata e normalizzata, in una scena che - per quanto forte e perfino plausibile - ci mostra la ragazza appena violentata che viene picchiata da suo padre solo perché è tornata tardi a casa.
I flashback di Alma sono lunghissimi e mostrano lo stupro ripetutamente, diventando insostenibili per chi li guarda, e questo vale anche per chi ha lo stomaco forte e la sensibilità allenata: avviene perché qui delicatezza non ce n’è, al contrario c’è accanimento. La dinamica stessa dello stupro è confusa. Non viene spiegato perché si tratti di stupro. Alma non dice né lascia intendere il suo “no”. Ha bevuto e preso una pasticca, e quindi il punto è che non è in condizioni per dare un effettivo consenso; ma nel racconto non è chiaro, e sembra semplicemente che si sia pentita. Esattamente lo stereotipo bugiardo che fa comodo ai maschilisti.
Si è mai vista una ragazza che indossa una maglietta con scritto “asshole”, “stronza”, perché è stata violentata e sente che la colpa è sua? Nella mente di un uomo, evidentemente sì.
Da una serie che si prende il diritto di ricalcare il nome di Ni Una Menos ci aspetteremmo che, se decide di raccontare una manifestazione e la preparazione alla stessa, il racconto sia realistico; e invece sembra il circolo del bricolage, qualche slogan all’acqua di rose. Ni Una Menos è stata infinitamente più incisiva del racconto che qui se ne fa.
Berta ha subìto una serie di violenze sessuali molto segnanti: aveva tredici anni, l’abusante era un professore. Berta non denuncerà mai, ma soprattutto ne rimarrà ferita al punto di tentare il suicidio tre volte. Riesce finalmente a uscire dal loop, solo che a quel punto arriva Alma. Alma che all’epoca aveva capito che c’era qualcosa di strano col professore e per tutta risposta le ha inspiegabilmente tolto la parola (glielo dice, Berta la perdona); Alma che non ha denunciato il suo stupro e anzi parla ancora con l’amico che ha abusato di lei, ma insiste affinché Berta denunci il professore. Alma che insiste al punto da permettersi di dire a Berta che “non riguarda solo te” (un classico, come se una donna non avesse il diritto di tutelarsi in momenti di fragilità perché deve essere generosa anche quando la violentata è lei, ma potenzialmente ce ne sono altre, e allora via libera al martirio e alla retorica sulla denuncia necessaria; non per te, per le altre).
Sarà sempre Alma a entrare ambiguamente in contatto con lo stesso professore, e non capiamo perché lo vada a dire proprio a Berta. All’inizio sembra che voglia incastrarlo come in Promising young woman, ma poi pare di no. È come se per Alma fosse tutto un gioco. Peccato che quando dice a Berta che si vede con lui, quest’ultima si ammazza per davvero. E davanti ai suoi occhi.
Nonostante la protagonista di questa serie sia quanto di più lontano da una transfemminista, perché una transfemminista non si permetterebbe mai di insistere affinché qualcuna denunci, a maggior ragione se così traumatizzata, il finale è tutto per lei. È lei che, morta l’amica, non rinuncia a far uscire la notizia del professore stupratore. Colmo dei colmi: quando mette uno striscione davanti alla scuola, al suo fianco e come se niente fosse c’è proprio il suo, di stupratore. L’ex amico che senza aver fatto alcun tipo di percorso è tornato a essere, come per magia (o forse per paragone con “il mostro”, il professore), uno dei buoni. Ubi maior. Peccato che nel frattempo abbiamo dimenticato cosa sia uno stupro, cosa ben strana per una serie divulgativa con gli adolescenti come target.
La ciliegina sulla torta è il lieto fine. Alma ormai è un’eroina: grazie a uno striscione e a un profilo Instagram in cui - all’inizio anonimamente, poi mettendoci la faccia - raccontava la vicenda infarcendola con post su lamette e polsi, alla fine di tutto questo vediamo che ha tantissimi follower e che lavora con i social per qualcuno di importante. Alma, eroina del capitalismo, non si fa remore a sfruttare gli stupri delle altre per emergere. Un po’ come Netflix quando lascia che a raccontare in questi termini la violenza sessuale sia un’équipe di uomini.
Ni una más, per davvero: di queste serie che rubano nomi di movimenti rivoluzionari come fossero brand a disposizione di tutti, per favore, non una di più.
È solo una pennellata rosa?
Millevoci 04.06.2024, 09:15
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