Intervista

Nascite in calo? Non è (solo) una questione di soldi

Dal Ticino alla Cina, passando per la Francia. Il calo demografico è una realtà, che preoccupa. La soluzione? Un approccio sistemico, che chiama in causa tutti noi

  • 30 settembre 2023, 06:58
  • 30 settembre 2023, 10:41
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Foto d'archivio

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Di: Massimiliano Angeli

“Penso che i popoli si regolino coerentemente con la disponibilità di risorse a disposizione, anche quelle ambientali… Sembra brutto da dire, ma la famiglia nasce come unità economica, perché sviluppa economie di scala, perché si vive tutti sotto lo stesso tetto…”. Così la professoressa Barbara Antonioli Mantegazzini, titolare alla Facoltà di scienze economiche e vice direttrice dell’Istituto di ricerche economiche (IRE) dell’USI, commenta, ai microfoni della RSI, gli ultimi dati sull’importante calo delle nascite, registrato in particolare in Francia, (1,83 bambini per donna), un Paese dove non sono mancati (e non mancano) contributi e incentivi (tra l’altro l’indennità statale è di 438 euro).

Un declino comunque – sottolinea la professoressa - ancora più marcato in Svizzera (1,48 bimbi per donna). “Addirittura nella Svizzera italiana, se ricordo bene, per il 2020 eravamo intorno a 1,28 figli per età feconda, quindi molto più vicini al dato italiano (1,24), siamo quindi abbastanza allineati. Poi abbiamo Paesi che sono più o meno distaccati, ad esempio la Turchia, uno di quelli più popolati d’Europa (però, anche con un tasso di fertilità molto alto, a sua volta ha registrato un calo di fertilità). Questo per dire che si tratta di un fenomeno abbastanza diffuso. È emblematico anche quello che sta accadendo in Cina. È sempre stato un Paese in grande crescita, ma anche qui si comincia a registrare qualche battuta d’arresto”.

Perché registriamo questo calo delle nascite?  

“Il problema è complesso e richiede un approccio sistemico, che deve considerare fattori economici, sociali, culturali. Analizzati nella loro relazione con le politiche pubbliche, ci possono essere fattori congiunturali o shock (ad esempio il COVID-19, l’effetto guerra o tutte quelle situazioni che creano tensioni, disagio, difficoltà economiche consistenti). E poi ci sono cambiamenti strutturali, che sono invece molto più perduranti: il fenomeno dell’educazione crescente, il cambiamento tecnologico, il cambiamento climatico. Tutto va a combinarsi con i fattori biologici tali per cui, magari, alla fine, quando si vuole avere figli, il picco della fertilità è passato e diventa anche più difficile procreare. Senza contare che c’è tutta una serie di costi progressivi, che vengono associati anche all’allargamento della famiglia. C’è una sorta di soglia, tale per cui, sopra i due figli bisogna, per esempio, prendere un’automobile più grande, un appartamento più grande… Diciamo che ci sono una serie di esigenze che rendono il tutto più difficile e anche più costoso”.

“Le faccio un esempio interessante: si tratta un’analisi che aveva fatto il MIT di Boston, quindi una delle massime Università, sul “problema” di avere un terzo figlio, emerso quando è stato reso obbligatorio il seggiolino di sicurezza per bimbi (le macchine “normali” non possono ospitarne tre, ma solamente due). L’obbligo da un lato ha salvato molte vite (chiaramente in caso di incidenti i bimbi sono più protetti) ma dall’altro nel 1980 (se ricordo bene) è stato registrato un calo di nascite di circa 8’000 bambini (dovuto ai costi). C’è stato un freno della natalità determinato, in questo caso, da uno standard normativo di sicurezza (da un lato positivo). D’ altro canto abbiamo avuto un effetto indesiderato, un “effetto contraccettivo”, potremmo dire”.

Cosa comporta un calo della natalità per i Paesi europei in termini economici e sociologici?

“Ci sono effetti intuitivi: se diminuisce il numero di persone in età da lavoro, questo mette a rischio la sostenibilità dei sistemi pensionistici, dei sistemi sanitari nazionali (che diventano anche più costosi, perché in parallelo al calo delle nascite c’è, fortunatamente, un allungamento della vita, quindi avremo persone che per un numero crescente di anni avranno anche bisogno di un sostegno sanitario). Più in generale c’è una questione di welfare, quindi di strutturare il sistema di sostegno in modo tale da tenere conto di questo calo. Meno nascite può voler dire (proprio perché c’è una minore quantità di giovani), minore produttività. Il che non vuol dire necessariamente meno crescita economica e meno innovazione. Bisogna quindi trovare nuove misure che tengano conto di questo meccanismo”.

Un fenomeno complesso, che spaventa molti. Quale approccio consiglierebbe?

“Quello che mi sento di dire, di fronte a questi fenomeni, è di prenderne atto, però usando sempre un approccio di buon senso. Anche in passato (penso a Thomas Robert Malthus), erano state fatte previsioni quasi apocalittiche su quella che sarebbe stata la differenza fra risorse disponibili e popolazione. Poi, fortunatamente, nel tempo abbiamo visto che si sono smussate. Quello che bisogna fare è ritarare le politiche pubbliche, tenendo conto di questi cambiamenti. E assecondare anche una nuova forma familiare. Non che non si debba più tornare a far figli, anzi (questa è una cosa positiva), ma è corretto non colpevolizzare chi non vuole procreare per 1’000 motivi e mettere a disposizione invece, di chi vuole, tutto il supporto necessario, anche a pagamento (coerentemente con quelle che sono le disponibilità economiche di ognuno), anche in un’ottica di sussidio incrociato, cioè di darsi una mano in termini di generazioni (ad esempio di lavoratori verso non lavoratori). In questo modo e combinando una cultura di apertura, di accoglienza e di trasmissione di quelli che sono i nostri valori, probabilmente qualcosa riusciremo a fare”.

Quali sono le soluzioni al calo delle nascite?

“Questo è un grande tema: nel momento in cui si parla di rivedere i sistemi di welfare, ci si scontra inevitabilmente con una condizione attuale. È una condizione in cui tutti gli Stati, in misura più o meno marcata, hanno problemi di entrate pubbliche e questo rende il percorso molto più complicato. C’è una crescente incertezza economica, per cui bisognerebbe rendere meno rischioso il futuro per i giovani, attraverso progetti che costruiscano fiducia. Sono molto spaventati, a volte non si riconoscono neanche nell’offerta lavorativa. Questo crea incertezze tali per cui si aspetta molto a fare figli o si sceglie di non farli. In parallelo, per chi invece sceglie fortunatamente (anche con piacere) di andare in questa direzione, bisogna continuare a creare un sistema di supporto che permetta di conciliare il lavoro anche con la vita personale e familiare. Questo meccanismo di conciliazione sta diventando sempre più importante. Ricordiamoci che non è un problema solamente femminile. La conciliabilità lavoro - tempo libero – famiglia, è un problema anche per gli uomini. Tutte queste misure possono contribuire, ma vedo difficile un effetto istantaneo, perché vi sono meccanismi di lungo periodo, di sedimentazione”.

Quanto tempo potrebbe servire?

“Non credo pochissimi anni, in tutta sincerità, ma credo che se si costruisce una società in cui si tiene conto delle persone e si cerca di creare l’ambiente più favorevole possibile alla nostra crescita (che è una crescita professionale, individuale, personale), probabilmente stiamo andando nella direzione giusta”.

Tra le soluzioni c’è l’immigrazione?

“Sì certo. Diversi Paesi (tra i quali anche la Svizzera), hanno registrato forti tassi migratori nel corso del tempo… così come tanti Paesi sono stati in grado anche di accogliere gli immigrati molto bene, di farli sentire parte della cittadinanza, quindi diciamo che, per esempio, per la Confederazione, la pluralità è sicuramente un valore. Chiaramente questo si deve coordinare con un rispetto delle regole; sono quelle che fanno sì che un popolo sia coeso e unito. Quindi c’è una questione che da un lato è culturale e dall’altra anche di ordine pratico. Chiaramente l’immigrazione è un fenomeno che deve essere gestito in maniera coordinata tra gli Stati, soprattutto in momenti come quelli attuali, dove alcune ondate migratorie sono particolarmente pressanti. Può comunque essere una delle soluzioni, in parallelo agli incentivi di cui sopra. Magari nessuna delle due soluzioni di per sé è quella che funziona. Mettendole insieme (perché è un problema complesso e richiede soluzioni complesse), mattoncino dopo mattoncino, forse possiamo riuscire a far qualcosa”.

C’è chi dice: bisogna rassegnarsi.. appena si raggiunge il benessere si fanno meno figli. Lei cosa ne pensa?

“Non credo ci si debba rassegnare, si deve prendere atto del cambiamento (che è diverso). Cambiamento che comunque c’è stato. Penso a mio padre, era del 1938, era il quinto figlio di una famiglia numerosa, (ma probabilmente era anche una di quelle famiglie meno numerose, perché all’epoca le esigenze erano diverse, c’era necessità di avere più braccia per dedicarsi all’agricoltura). Chiaramente anche all’epoca c’era una sorta di graduatoria, per cui magari solo i primi figli studiavano, solo quelli più bravi, gli altri venivano indirizzati verso altre attività. Nel tempo tutto questo si è assestato, anche perché c’è il desiderio di preparare per i figli un percorso meno tortuoso, meno rischioso. Dall’altro lato ci sono tendenze recenti di famiglie o di persone che non vogliono avere figli. È diventata una scelta anche questa, dove c’è una pressione sociale minore. Quindi non parlerei di rassegnazione, ma direi di fare i conti con una realtà che cambia. Vuol dire però che, per evitare una serie di contraccolpi, bisogna anche ripensare tutte le nostre politiche pubbliche, tenendo conto di questo fattore”.

RG 12.30 del 29.9.2023 Il servizio di Alessandro Grandesso

RSI Mondo 29.09.2023, 12:14

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