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Disciplinari della discordia (1)

Non sempre le denominazioni protette sui prodotti agroalimentari mettono tutti d'accordo. L'esempio del Bitto valtellinese

  • 3 luglio 2019, 05:33
  • 22 novembre, 21:49
05:15

Tra Ribelli e DOP

RSI/Dario Lanfranconi - Fabio Salmina 03.07.2019, 07:30

A dispetto di quel che si può pensare, non sempre le denominazioni di origine protetta fanno l’unanimità, e nella vicina Valtellina un caso su tutti ha fatto discutere per oltre 20 anni: la cosiddetta “Guerra del Bitto”.

Al nostro arrivo a Gerola Alta (SO) Paolo Ciapparelli, uomo simbolo della “Ribellione” e presidente del Centro del Bitto Storico Ribelle, è impegnato con un gruppo di studenti dell’Università gastronomica di Pollenzo, fondata da Slow Food che ha pure messo in piedi il presidio dello storico formaggio valtellinese. Per Ciapparelli la difesa del metodo tradizionale di produzione è ormai una “missione” ventennale, portata avanti in contrapposizione alla produzione più moderna e permissiva della Denominazione di origine protetta (DOP).

Una guerra, come spesso è stata definita, che ha portato i produttori tradizionali a dover rinunciare al nome Bitto, per non rischiare sanzioni. “L’inserimento dell’obbligo dell’uso dei mangimi e dei fermenti praticamente voleva dire creare un altro prodotto - spiega Ciapparelli - . Noi abbiamo dovuto difendere con coraggio la nostra visione, per cui l’ultimo passaggio, per non essere multati all’interno delle DOP, è stato quello di cambiare il nome e uscire quindi dal circuito delle DOP. E siamo diventati Storico Ribelle”.

Anche sul ruolo più generale delle denominazioni protette Ciapparelli ha una visione chiara: “Si è partiti bene sulla carta, ma in realtà le denominazioni sono state accettate e sponsorizzate esclusivamente per le future prebende economiche che avrebbero portato. Per cui sono diventate il vero grande problema per mantenere la storia”.

L’altra campana: “Senza la DOP non si andrebbe più in alpeggio”

A Bormio incontriamo invece chi la DOP l’ha fondata e nella quale continua a credere fermamente: “I tempi sono cambiati – afferma Andrea Pedranzini, vice presidente del Consorzio di tutela del Bitto e del Valtellina Casera (CTBC) – . Noi abbiamo fatto delle scelte che io oggi, a distanza di 20-30 anni ritengo giuste… Le dobbiamo solo portare avanti in modo corretto, perché non nascondo che purtroppo ci sono dei furbi che esagerano con l’integrazione di mangime, ci sono delle persone incapaci di utilizzare i fermenti, ma sono fermamente convinto che abbiamo seguito la strada giusta per permettere agli alpeggiatori di andare in alpeggio e continuare questa tradizione.”

Sull’importanza delle denominazioni di origine protetta, Pedranzini non ha dubbi: “Io credo che oggi in Valtellina, se non ci fossero le DOP del Valtellina Casera e del Bitto la Valtellina sarebbe a terra completamente. Invece queste DOP ci sono e il latte viene pagato 41/42/43 centesimi al litro. Trovatemi altri posti dove il latte viene pagato così… Certo le DOP, le IGP, le DOCG hanno dei problemi e quello principale è la burocrazia che ci gira attorno. L’importante è che noi dobbiamo essere in grado di produrre un prodotto veramente all’altezza di queste denominazioni, senza snaturare troppo il prodotto.

Una contrapposizione che negli ultimi 20 anni e oltre ha fatto scorrere fiumi di inchiostro tanto in Italia, quanto in tutto il mondo (e c’è pure chi ci ha scritto un libro: "I ribelli del bitto: quando una tradizione casearia diventa eversiva", di Michele Rossi)… E voi, da che parte state?

Dario Lanfranconi - Fabio Salmina

Denominazioni di origine protette, per saperne di più:

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CSI 18.00 del 21.03.2019 - Dal DOP al bit, di Alessandro Chiara e Dario Lanfranconi

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