Da quando è tornato prepotentemente alla ribalta, negli ultimi anni del secolo scorso, il nome di Sándor Márai, il grande scrittore ungherese nato nel 1900 e morto suicida negli Stati Uniti nel 1989, è una presenza costante nel panorama editoriale italofono. I numeri, del resto, parlano da soli: quasi venti titoli, tutti di altissima qualità, con alcuni gioielli quali il celeberrimo Le braci (il libro, pubblicato nel 1998, che ne ha avviato la sensazionale riscoperta), il diario della vecchiaia L’ultimo dono, i tre pannelli dell’autobiografia Confessioni di un borghese, Terra, terra! e il postumo Volevo tacere, che occupano un posto di assoluto rilievo tra le grandi testimonianze del Novecento, e una nutrita serie di splendidi romanzi, tra i quali meritano una menzione particolare La donna giusta, bellissimo quanto crudele ritratto dell’emigrazione e dell’esilio, e Il sangue di San Gennaro, di ambientazione italiana.
Il mestiere lo si acquista, il talento è sorgivo. I grandi scrittori nascono grandi, e lo si capisce subito. Basti pensare a Thomas Mann, che a venticinque anni scrive I Buddenbrook, oppure a un fenomeno che sfugge a ogni classificazione come Georg Büchner, morto a soli ventiquattro anni dopo aver dato alle stampe due capolavori della storia del teatro come La morte di Danton e Leonce e Lena (il terzo capolavoro, Woyzeck, quasi indefinibile nella sua sconfinata grandezza, venne pubblicato postumo).
Sándor Márai fa parte a pieno titolo di questa schiera di eletti, con una particolarità. Nel suo caso, come in quello di Büchner, ma per un diverso motivo, il numero decisivo e in un certo senso fatale è il ventiquattro. Márai esordisce infatti a ventiquattro anni, nel 1924, con un racconto semplicemente perfetto, di straordinaria pregnanza e concisione, che sembra il prodotto di un lunghissimo lavoro di lima e soprattutto fornisce l’impressione che a scriverlo sia stato un autore già avanti con gli anni, di lunga e provata esperienza, capace di servirsi con assoluta naturalezza di tutti i trucchi del mestiere.
Il racconto, che si intitola Il macellaio, è invece la prima prova narrativa del giovane ventiquattrenne e contiene già, quasi condensati e cristallizzati, tutti i temi, i richiami e le suggestioni che torneranno poi nelle opere più tarde (“tarde” nel mero senso cronologico, e non più “mature”, perché questo racconto giovanile è già un’opera pienamente matura). Anche per Márai, insomma, come pur tutti gli scrittori dotati di un talento cristallino, che nascono grandi o grandissimi, valgono le parole con le quali il fintamente modesto Thomas Mann, a distanza di quasi mezzo secolo, aveva rievocato i propri esordi come scrittore con la pubblicazione de I Buddenbrook: «Forse con quell’opera la mia “missione” si è esaurita, e mi è toccato solo di riempire in modo dignitoso e interessante il resto di una lunga esistenza. Con questo non voglio comunque sminuire, da ingrato, lo sviluppo che la mia stessa vita ha avuto dopo quell’invenzione giovanile».
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Il macellaio, se non altro per l’ampiezza e il tema trattato, non è certo paragonabile ai Buddenbrook col loro vasto e composito affresco storico-sociale, così come il resto dell’opera di Márai non può essere considerato come il riempimento “dignitoso e interessante” di una “lunga esistenza”. Rimane comunque il fatto che l’universo umano e poetico dello scrittore ungherese è già tutto presente nelle tesissime pagine di questo prodigioso esordio.
I cosiddetti romanzi della maturità di Márai (viene da pensare soprattutto a Le braci, ma il tratto è ravvisabile un po’ ovunque), sono infatti caratterizzati non solo da un’indagine psicologica spesso crudele, ma anche dalla presenza di un protagonista che nel confronto dialettico -quasi sempre spietato e serratissimo- con se stesso e gli altri personaggi porta in superficie gli aspetti più reconditi e i lati maggiormente in ombra dell’animo umano, permettendo al narratore di operare una vera e propria dissezione dei sentimenti e più in generale delle dinamiche che regolano i rapporti interpersonali. Il termine “dissezione”, di vaga ascendenza strindberghiana, non è casuale, perché le pagine di Márai producono spesso l’impressione, terribile e insieme perturbante, di trovarsi al cospetto di un tavolo anatomico, con l’unica differenza che la dissezione viene praticata non sui corpi, ma sulle anime.
Anche Il macellaio non sfugge a questa regola e sembra anzi esprimerla con particolare concretezza, perfino con un’immediatezza tattile e olfattiva. Il protagonista della vicenda, ambientata a Berlino negli ultimi anni della Germania guglielmina, è il giovane macellaio Otto Schwarz, il quale vive nella convinzione che per cavarsela bisogna «menare gran colpi in testa ai bovini». Questa dozzinale massima di vita si traduce però, pagina dopo pagina e con un crescendo perfettamente orchestrato dal narratore, in un’agghiacciante discesa negli inferi dell’abiezione, tanto più assoluta e sconvolgente nella misura in cui si tratta di un’abiezione spontanea, naturale e basata su un terrificante autoinganno: per Otto Schwarz, infatti, uccidere gli animali in un mattatoio o i soldati nemici in un’azione di guerra non fa una grande differenza. Anzi, è esattamente la stessa cosa, il quasi inevitabile esito di una sorta di sinistra vocazione.
Volevo tacere rientra nel novero delle grandi opere letterarie che hanno colto e descritto in tempo reale e in presa diretta, con intensa emotività e un’immediatezza non ancora filtrata e stemperata dal tempo e dalla memoria, la fine di un mondo e il tramonto di un’intera civiltà. Nelle prime righe del volume, Márai spiega il motivo che lo ha costretto e obbligato a scrivere, raccontare, farsi testimone: «Volevo tacere. Ma il tempo mi ha chiamato e ho capito che non si poteva tacere. In seguito ho anche capito che il silenzio è una risposta, tanto quanto la parola e la scrittura. A volte non è neppure la meno rischiosa. Niente istiga alla violenza quanto un tacito dissenso».
Con l’incredibile facilità di scrittura che contraddistingue anche le altre parti dell’autobiografia e le opere narrative, Márai racconta la società ungherese nel periodo che va dal marzo 1938, con l’annessione nazista dell’Austria, al giorno del marzo 1944 in cui i carri armati tedeschi varcarono i confini ungheresi e posero davvero fine a un’epoca che per l’Ungheria e le zone contigue dello spazio danubiano era cominciata col cosiddetto “compromesso” del 1867, un accordo interno alla monarchia austroungarica in virtù del quale la nazione aveva avuto la possibilità di preservare la propria identità e aumentare il benessere sociale, facendo perno sul celebre principio asburgico dell’“assolutismo temperato dalla negligenza”, che nella sua versione viennese si traduceva nel non meno celebre Leben und leben lassen, “vivere e lasciar vivere”.
Tutto comincia quindi con l’ingresso delle truppe naziste a Vienna, che provocherà un vero e proprio terremoto nell’area danubiana e poi nell’intera Europa. Ma nessuno fa nulla, sia perché in molti paesi europei, in particolare in Francia e Inghilterra, Hitler viene ancora visto come un baluardo contro la minaccia costituita dal bolscevismo russo (una delle tante sciagure della Realpolitik novecentesca in territorio europeo), sia soprattutto perché nello specifico di una città come Budapest la vita quotidiana continua a scorrere senza particolari turbolenze e il ceto borghese, al quale Márai appartiene, continua tranquillamente la propria esistenza fatta di small talk, teatro, concerti, nuoto e partite a tennis.
Senza minimamente cercare di giustificarsi, Márai lo spiega con assoluta precisione in un passo nel quale svolge alcune considerazioni molto penetranti sulla grande Storia e sulla piccola storia costituita dal microcosmo dei singoli individui: «Si sa com’è la natura umana. Finché ci sono ottocento chilometri a separarci da una realtà, siamo portati a vedere le cose, anche se si tratta di cose reali, come fuochi fatui nella nebbia. A quell’epoca Hitler era già una realtà da molti anni, quel nome e tutto ciò che significava aleggiava nell’atmosfera avvolto da sinistri vapori. Ma aleggiava da qualche parte in Germania, dunque non era veramente reale. Ne avevamo paura, ma non credevamo che un giorno sarebbe potuto diventare ciò che in segreto temevamo».
Incontro con Gregor von Rezzori
RSI Protagonisti 12.06.2024, 10:16
Come ha osservato un altro lucidissimo testimone della fine della vecchia Europa, Gregor von Rezzori, autore di tre volumi autobiografici -Tracce nella neve, Mormorii di un vegliardo e Sulle mie tracce- per molti versi assimilabili a quelli di Márai, si pensa di vivere nella Storia ma in realtà si viene vissuti dalla Storia, che a sua volta procede in base a leggi e moventi non immediatamente riconducibili alla logica o quanto meno alla ragionevolezza. E’ la verità espressa una volta per tutte da Stendhal ne La Certosa di Parma: Fabrizio Del Dongo, a Waterloo, non ha la consapevolezza di vivere un momento storico, perché in quel momento la Storia è un campo di battaglia dove non si capisce nulla ed è quasi impossibile distinguere il compagno e il nemico. Márai, da parte sua, si spinge in profondità ancora più impervie, operando un suggestivo parallelismo tra le angosce e i timori causati dal divenire storico e la grande paura ancestrale che ogni essere umano porta con sé per tutto il corso della vita cosciente: «Non si crede davvero neppure nella morte. Se ne ha paura, l’esperienza ci dimostra che è inevitabile, ma in fondo al nostro cuore e alla nostra coscienza speriamo fino all’ultimo che per noi farà eccezione, che inventeranno un rimedio miracoloso capace di allungare in eterno la vita umana, e che noi personalmente non moriremo. Naturalmente sappiamo che tale desiderio è ridicolo».
Il paradosso è evidente. La morte -quella del singolo individuo e quella delle collettività- è la verità ultima della vita, perché senza la consapevolezza della morte non ci sarebbe una chiara consapevolezza della vita: si ha coscienza di vivere, insomma, perché si ha coscienza di dover morire. E’ precisamente ciò che Miguel de Unamuno ha definito “sentimento tragico della vita”. La reazione che il singolo individuo oppone a questo dato elementare dell’esistenza è simile a quella che le collettività oppongono alle svolte impreviste e imprevedibili del divenire storico: «Eppure non si crede alla propria morte, poiché altrimenti l’anima sarebbe costantemente in preda al panico. Ma questo panico a volte ci assale comunque. Perché nei momenti in cui sospendiamo l’inganno, la nebulosa coscienza della morte emerge dalle oscure caverne dell’anima, e sappiamo con assoluta certezza che tutto ciò che siamo diventerà nulla nel giro di un istante. E allora è il panico. La maggior parte degli esseri umani reagisce a questo momento con un impulso aggressivo. Il panico si trasforma sempre in aggressione: in quei momenti, aggrediamo noi stessi o gli altri».
Stefan Zweig: Farewell to Europe — Trailer
RSI Vita quotidiana 09.08.2016, 09:55
Nel periodo dell’annessione nazista dell’Austria e nei primi anni del secondo conflitto mondiale, in Ungheria e altrove «una sorta di nebbia gialla era calata sugli occhi di una società in preda a una folle furia omicida». Si pensava di vivere su un’isola, e invece si viveva «su un pantano ribollente sotto cui gorgogliava un vulcano» che poi eruppe in «un’ondata cruenta e immonda», dice Márai, il cui sguardo si spinge anche oltre, fino all’arrivo dei sovietici e alla scelta dell’esilio nel 1948. Márai lasciò l’Ungheria comunista e soggiornò inizialmente in Italia, a Venezia e Napoli, poi si trasferì negli Stati Uniti, dove visse per quattro decenni fino al 1989, quando si tolse la vita quasi novantenne a San Diego.
Volevo tacere racconta le vicende che precedono l’esilio, e in questo senso è anche un prezioso documento storico che ricorda molto da vicino un altro commovente addio alla vecchia Europa: Il mondo di ieri di Stefan Zweig, scritto qualche anno prima in condizioni non dissimili, anche se il viennese Zweig si trovava già in esilio nel lontano Brasile. Nelle pagine di questo libro, come in quelle di Zweig, ci sono la malinconia del ricordo ma anche la precisione e l’acutezza spesso impietosa dell’analisi e dell’autoanalisi. Ecco perché Volevo tacere, esattamente come Il macellaio, aiuta a capire meglio e più a fondo quel preciso periodo storico, la fine della funzione storica della borghesia e il suicidio dell’Europa. Ma aiuta anche a circoscrivere le cause e i moventi remoti di un altro momento estremo: il gesto che Márai compì quasi mezzo secolo dopo, a migliaia di chilometri dalla patria perduta.