Il romanzo Austerlitz di Winfried Georg Sebald ha una caratteristica che si staglia su tutte: fin quasi alla metà del libro non si comprende in nessun modo dove voglia andare a parare. Lunghe e a tratti estenuanti digressioni di carattere più o meno collezionistico dello studioso di Storia dell’Architettura Austerlitz si assommano le une alle altre senza apparente scopo che non sia quello di suggerire una raffinata tecnica di diversione. Poi, a partire da pagina 136, qualcosa ribalta radicalmente la monotona – e a questo punto comprensibile – ossessione catalogatoria del protagonista. In particolare una frase, che nella sua limpidezza spiega in quale gorgo di pretestuose distrazioni accademiche si sia smarrita la vita di Austerlitz fino a quel momento:
«Sentivo di non possedere realmente né memoria né raziocinio né un’esistenza nel vero senso del termine, di non aver fatto altro per tutta la vita che cancellarmi volgendo le spalle al mondo e a me stesso».
Allora il romanzo decolla con una potenza evocativa che risarcisce ampiamente dalla lunga attesa del grande tema che lo sottende: il sottilissimo e delicatissimo problema dell’oblio come strumento di difesa dall’orrore.
Quanto in effetti connota alla radice l’esistenza di Austerlitz non è ciò che egli ha vissuto e studiato nei suoi lunghi anni di ricerche intorno all’architettura, bensì tutto ciò che egli ha rimosso a se stesso – quasi a volersi negare un passato e un’origine – della sua vita infantile. E che a partire da un certo momento decide di indagare per ritrovarlo nella sua terrificante evidenza.
Rivela, a questo proposito, poco dopo aver cominciato a intraprendere la propria ricerca a ritroso:
«Notavo in quel momento quanto poco esercitata fosse la mia memoria e quanti sforzi avessi profuso, invece, per non ricordare nulla, se possibile, e per sottrarmi a tutto ciò che, in un modo o nell’altro, implicasse qualche riferimento alla mia origine ignota».
Quasi a mostrare a se stesso che tutto ciò che accadde durante la sua infanzia dovette sottostare alla terribile legge dell’oblio. O meglio, dell’oblio deliberato.
Cosa accadde, allora, in questa infanzia consegnata alla dimenticanza, che finalmente Austerlitz decide di affrontare e osservare senza sconti in tutta la sua mostruosità? Accadde che, come molti bambini ebrei praghesi della sua epoca, egli venne caricato su un treno e spedito in Inghilterra per poter essere risparmiato allo sterminio nazista. Così perdendo, insieme ai propri genitori e ai propri luoghi, tutto ciò che attiene alla memoria e alla capacità del ricordo di costruire un tempo coerente.
«Anche se oggi mi appare inconcepibile, non sapevo niente della conquista dell’Europa da parte dei Tedeschi, dello Stato schiavistico che avevano instaurato, e niente della persecuzione alla quale ero sfuggito (...) Per me il mondo si era concluso con la fine del XIX secolo. Oltre non osavo avventurarmi, benché, in fondo, l’intera storia dell’architettura e della civiltà dell’epoca borghese, cui dedicavo i miei studi, corresse verso quella catastrofe che già allora andava profilandosi».
Un metodo di rimozione diventa così, nelle drammatiche rievocazioni di Austerlitz, né più né meno che uno strumento di sopravvivenza all’orrore. Almeno quanto la risoluzione finale di rimettersi sulle tracce della storia e della tragedia diventa il suo riscatto e la sua occasione di rinascita.
«Ero costantemente preso da quella gran mole di sapere che avevo continuato ad accumulare per decenni e che fungeva da memoria surrogata e di compenso».
Austerlitz assume allora la sua decisione più estrema: rientra a Praga e va alla ricerca della domestica che lo accudiva da piccolo avviando così la sua strenua battaglia contro l’oblio.
Da qui in avanti il ricordo, nutrendosi di testimonianze e filmati, rievocazioni e ritorni ai luoghi fisici del suo e del passato dei genitori, si dispiega in tutta la sua ampiezza. Austerlitz ritrova, quasi dettaglio per dettaglio, insieme alla storia del nazismo e dei suoi soprusi, il destino dei suoi genitori confinati in Germania e in Francia, ogni frammento di esistenza nel frattempo negato alla memoria e ogni tassello dei crimini hitleriani. E finalmente può affermare con la perentorietà di un assioma:
«Noi non comprendiamo, a mio giudizio, le leggi che regolano il ritorno del passato, e tuttavia io ho sempre più l’impressione che il tempo non esista affatto, ma esistano soltanto spazi differenti, incastrati gli uni negli altri, in base a una superiore stereometria, fra i quali i vivi e i morti possono entrare e uscire a seconda della loro disposizione d’animo, e quanto più ci penso, tanto più mi sembra che noi, noi che siamo ancora in vita, assumiamo agli occhi dei morti aspetti di esseri irreali e visibili solo in particolari condizioni atmosferiche e di luce».
Una conclusione tragica, ma a suo modo salvifica. Perché forse oblio e ricordo non sono che le due facce della stessa medaglia: quella medaglia che ci riporta al passato o ce lo nega perché ne si sia di volta in volta gli eredi o le vittime.
Storia naturale della distruzione - Georg Winfried Sebald
RSI Cultura 04.02.2023, 16:55
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