Elzeviro

Se questo è l’uomo

Karl Kraus e gli altri: la realtà indicibile, oltre il progresso e le “magnifiche sorti”

  • Oggi, 17:00
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Di: Mattia Mantovani 

Blaise Pascal lo aveva paragonato a un pitale, ma c’è chi si è spinto perfino oltre: l’animo umano è un orrendo precipizio nel quale è consigliabile non gettare lo sguardo, perché in caso contrario possono venire facilmente le vertigini. Sono parole tratte dal Woyzeck di Georg Büchner, immenso capolavoro scenico che nel 1979 è stato portato anche sugli schermi da Werner Herzog, in un film con Klaus Kinski nel ruolo del protagonista. Che l’animo umano sia un abisso melmoso viscoso e fanghiglioso è indubitabilmente vero, ma è altrettanto vero che si tratta di parole di quasi due secoli fa, dal momento che il testo di Büchner – che lo scrisse a soli 23 anni, pochi mesi prima di morire – risale al 1836.

Era quindi lecito sperare o almeno illudersi che duecento anni di progresso sociale e tecnologico, “magnifiche sorti”, diffusione della conoscenza e allargamento delle istanze democratiche potessero vuotare il pitale, rendere l’abisso un po’ meno abissale e le vertigini un po’ meno vertiginose, oppure più controllabili. Ma la verità è un’altra. Viene infatti da pensare alle parole di Egmont nell’omonimo dramma di Goethe: «Come sferzati da invisibili spiriti, i solari cavalli del tempo trascinano via con sé il lieve carro del nostro destino, e a noi non resta che tenere salde le briglie con dignitoso ardimento, per preservare le ruote, ora a destra ora a sinistra, qui dalla pietra, lì dal precipizio. Dove andrà, a nessuno è dato sapere. A mala pena ricorda donde è venuto». Perché in ultima analisi questo è l’uomo, e il quadro antropologico dell’era tecnologica è identico a quello dei cavernicoli o dei contadini del Medioevo. Nello specifico dell’Occidente, è il quadro socio-antropologico di una civiltà in disfacimento, in rovina culturale, fisica e mentale, che non ha più nulla da dire, nulla da pensare, nulla da inventare e proporre. E che sembra marcire proprio in questo ricco e vanaglorioso disfacimento.

Non è insomma cambiato niente dallo scimmione di 2001 - Odissea nello spazio, che venerava un monolite e ammazzava il rivale brandendo un osso come una clava, dando inizio a un eterno ritorno dell’identico. L’unica differenza, nemmeno troppo sostanziale, è che oggi la tecnologia permette di utilizzare strumenti molto più sofisticati e precisi, oppure maggiormente pervasivi. Questi ultimi decenni, con l’imporsi a livello planetario di un modello di vita e un pensiero unico venduto e smerciato come la più naturale e incontestabile ovvietà, hanno quindi trasformato in amare certezze i dubbi sul progresso, la perfettibilità umana e la supremazia della Dea Ragione. E insieme, come se non bastasse, hanno reso fortemente problematico il concetto di realtà.

I grandi scettici del Novecento, a dire il vero, lo avevano già capito: Vladimir Nabokov, ad esempio, aveva detto che la realtà esperibile, nell’epoca della tecnologia e della frammentazione delle conoscenze, si è talmente disarticolata che ormai la si può accostare soltanto per sottrazione, e comunque sempre tra virgolette: la “realtà”, non la realtà, un po’ come nella celebre poesia Non chiederci la parola… di Eugenio Montale. («Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, / sì qualche sorta sillaba e secca come un ramo. / Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo»). Ma il diritto di primogenitura, se così lo si può definire, spetta alla grande cultura austriaca che nei primi decenni del secolo breve, esattamente cento anni orsono, ha reinventato e trasformato il tramonto della monarchia asburgica nella cifra simbolica di un’intera civiltà giunta alla fine e destinata a sopravvivere nell’astrazione, nelle vuote forme della mera esteriorità, non da ultimo nella totale mancanza di un senso e di un valore fondante.

Uno dei massimi esponenti di quella grande cultura, Hermann Broch, che insieme a Robert Musil ha coltivato l’utopia del cosiddetto “romanzo totale”, che avrebbe dovuto risolvere nella ferrea e coerente unità della struttura romanzesca la multiforme e sfuggente complessità del reale, ne ha sintetizzato l’impossibilità nella penetrante metafora del “palco vuoto” che in ogni teatro di ogni città dell’Impero Austroungarico veniva riservato all’Imperatore. Quel palco, ovviamente, restava quasi sempre vuoto, perché l’Imperatore non poteva essere ovunque nello stesso momento.

Il “romanzo totale” era precisamente il tentativo, meraviglioso e straordinario nel suo inevitabile fallimento, di riempire quel palco vuoto, o in altri termini di trovare la “parola” in grado di dire la “realtà”. Broch ha espresso la consapevolezza del fallimento nelle righe conclusive del suo tardo romanzo La morte di Virgilio, che racchiude un po’ tutta l’eredità della grande cultura del tramonto asburgico, favoleggiando dell’esistenza di una parola che «si librava al di sopra del tutto, al di là dell’esprimibile e dell’inesprimibile», simile a «un mare sospeso, un fuoco sospeso, con la pesantezza del mare, con la leggerezza del mare, e tuttavia sempre parola». Una parola, però, «incomprensibilmente ineffabile, perché era al di là del linguaggio». Come diceva il già ricordato Montale: «Non domandarci la formula che mondi possa aprirti».

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Robert Musil, "L'uomo senza qualità" presentato da Fabio Pusterla

Speciali 09.07.2015, 22:00

Søren Kierkegaard diceva che l’ottavo peccato capitale, uno dei peggiori, è l’ipocrisia, il voluto scollamento tra ciò che si dice e ciò che si pensa (e viceversa). Difficile dirgli torto. Se la realtà “reale” e la “verità” non sono dicibili, si racconta l’impossibilità di raccontare, oppure si raccontano più o meno consapevoli menzogne che si chiamano “trame” o “narrazioni”, forzando e violentando le parole, trasformandole in strumenti della mistificazione, sia nella generale “guerra” del vivere, sia nella guerra intesa concretamente come scontro armato tra Stati o coalizioni rivali. Il primo a capirlo, al punto da non nutrire nemmeno la grandiosa quanto inutile speranza nel “romanzo totale”, ma limitandosi  – si fa per dire – a constatare la bancarotta e perfino l’apocalisse (nel significato etimologico di “rivelazione”, intesa come “disvelamento”), è stato Karl Kraus. Nato nel 1874 nella cittadina di Jitschin (oggi nel territorio della Repubblica Ceca) e morto a Vienna nel 1936, Kraus è stato uno dei massimi protagonisti della cultura viennese di inizio Novecento.

Il suo ideale erede Ennio Flaiano, che in molti scritti  – e soprattutto nella sceneggiatura di un film ancora largamente incompreso come La dolce vita – ha “disvelato” la bancarotta col medesimo feroce disincanto, si era simpaticamente autodefinito «scrittore satirico minore dell’Italia del benessere». Quanto a Kraus, lo si potrebbe forse definire scrittore satirico maggiore della “stazione meteorologica della fine del mondo” (secondo la sua fulminante definizione della Vienna asburgica, poi divenuta proverbiale grazie ad Albert Ehrenstein). Tutta la sua produzione, infatti, dai celebri volumi di aforismi al monumentale testo scenico Gli ultimi giorni dell’umanità (il Woyzeck del Novecento, a tutti gli effetti), dalla temutissima quanto leggendaria rivista Die Fackel (“La fiaccola”, pubblicata dal 1899 al 1936, costantemente osteggiata e più volte censurata) fino al saggio pubblicato postumo La terza notte di Valpurga, che rimane la più precisa analisi della genesi del nazismo, si configura come un’unica variazione sul tema della fine, intesa quale corruzione e pervertimento della parola che non dice più la realtà e anzi la travisa e la nasconde.

L’opera “originaria” e fondamentale di Kraus, da questo punto di vista, è un breve pamphlet scritto nel 1914 – pochi mesi dopo lo scoppio del primo conflitto mondiale – e intitolato provocatoriamente In questa grande epoca. Riletto oggi, il pamphlet si rivela di un’attualità davvero inquietante, soprattutto per la sua vertiginosa e labirintica tesi di fondo: per capire la guerra e il suo cuore di tenebra bisogna preventivamente capire il modo in cui se ne parla. Il solo modo di fronteggiarla dovrebbe quindi consistere nel cambiare il modo in cui se ne parla, oltre tutte le mistificazioni, le ipocrisie, le trame e le narrazioni di una certa stampa e una certa cultura/incultura vendute e asservite al potere e agli interessi economici che stanno dietro ogni guerra.

Kraus lo spiega all’inizio del saggio, con un paradosso che si regge su una velenosa e urticante ironia: «In quest’epoca seria, che è morta dal ridere di fronte alla possibilità di poterlo diventare sul serio; che, sorpresa dalla propria tragicità, tenta di trovare distrazioni, e quando si coglie sul fatto cerca le parole; in quest’epoca rumorosa, che rimbomba della spaventevole sinfonia di fatti che producono cronache e di cronache che causano fatti: in quest’epoca non aspettatevi da me neppure una parola mia. Se non questa, che evita che il mio tacere sia travisato. Chi incoraggia i fatti con le parole, profana parola e fatto ed è doppiamente spregevole Quelli che ora non hanno niente da dire, perché è il fatto ad avere la parola, parlano ancora. Chi ha qualcosa da dire, si faccia avanti e taccia!». Esattamente settant’anni dopo, al cospetto dei segni sempre più evidenti e incontrovertibili della bancarotta dell’Occidente sazio e disperato, un altro suo grande erede e maestro di paradossi, Guido Ceronetti, proporrà «il disprezzo muto quale risposta estrema».

Comunque sia, osserva Kraus operando una sapida variazione su un celebre verso del Faust di Goethe, «in principio c’è la menzogna», dalla quale discende tutto il resto: Cos’è mai l’umanità? Kraus non ha dubbi: «L’umanità è la clientela. Dietro le bandiere e le fiamme, dietro gli eroi e i soccorritori, dietro tutte le patrie è stato eretto un altare di fronte al quale la scienza devota si torce le mani: Dio creò il consumatore! Ma Dio non creò il consumatore perché fosse felice sulla terra, bensì per uno scopo più alto, perché sulla terra fosse felice il commerciante, dato che il commerciante è stato creato nudo e diventa un commerciante solo se vende vestiti». Il ragionamento è apparentemente paradossale, ma la conclusione è perfettamente logica e svela una grande finzione, che forse è perfino “la” grande finzione: «La cultura è il tacito accordo di subordinare i viveri allo scopo di vita. La civilizzazione è l’asservimento dello scopo di vita ai viveri. A questo ideale serve il progresso, e a questo ideale esso offre le sue armi». Considerazioni piuttosto attuali, si direbbe.

“In principio”, insieme all’ipocrisia e alla menzogna, ci sono quindi lo scontro, il conflitto, la volontà di potenza e sopraffazione, più in generale la tendenza a circoscrivere la propria identità non solo e non tanto per affermazione, ma soprattutto per negazione dell’identità altrui: in una parola, l’odio. Eppure l’odio e il disprezzo, quando non si trasformano in sterile risentimento e in violenza, sono una grande forza propulsiva e perfino creativa, perché permettono di svelare la verità dietro le menzogne e le ipocrisie. E’ vero infatti che Baudelaire, nei Consigli ai giovani scrittori, li considerava talmente preziosi da suggerire di non sprecarli, utilizzandoli con la massima parsimonia e in maniera molto mirata: «L’odio è un liquore squisito, un veleno più caro di quello dei Borgia, perché è fatto con il nostro sangue, la nostra salute, il nostro sonno e con due terzi del nostro amore! Bisogna esserne avari!». Ma è altrettanto vero, e forse ancora più vero, quanto ha scritto il giovane Émile Zola nel 1866, in un lungo saggio intitolato significativamente I miei odi: «L’odio è santo. E’ l’indignazione dei cuori forti e potenti, lo sdegno militante di chi si arrabbia per la mediocrità e l’idiozia. Se oggi valgo qualcosa, è perché sono solo e perché odio».

Sono parole che valgono anche per Kraus, il quale si augurava che la “grande epoca” potesse «diventare grande abbastanza da giungere al livello delle sue vittime, e mai tanto grande da vivere crescendo oltre la loro memoria». Sono questioni che un secolo dopo, nell’ennesimo e disperante periodo di guerre, violenze, distruzioni, menzogne e ipocrisie, attendono ancora una plausibile risposta, ammesso (e non concesso, forse) che la si voglia cercare. Il sarcastico e profetico Kraus, secondo il quale «essere uomini è uno sbaglio», ha indicato da parte sua un possibile percorso in un aforisma di insidiosa, grottesca, surreale e spiazzante bellezza (non a caso, amatissimo e spesso citato da Friedrich Dürrenmatt), sul quale varrebbe la pena di meditare seriamente, soprattutto in un frangente nel quale sono in tanti – troppi – ad arrogarsi il diritto di occuparsi dell’altrui buonumore: «Da uno Stato nel quale debbo vivere pretendo quanto segue: asfalto, pulizia delle strade, chiave del portone di casa, riscaldamento e acqua calda. Al mio buonumore ci penso io».

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