Matthew Fisher
La Recensione

“Journey’s End”

Un album riemerge dal passato

  • Keystone
  • 30.1.2024
  • 22 min
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Di: Franco Fabbri

Journey’s End è il primo album da solista di Matthew Fisher, pubblicato nel 1973. Perché recensirlo ora? Perché l’album uscì nel formato 33 giri (oggi si direbbe “vinile”) e perfino su cassetta Stereo 8, ma non fu ripubblicato su CD. Nonostante avesse a suo tempo ricevuto consensi da critica e pubblico, e nonostante fosse stato edito da una major, finì in quella sorta di cimitero degli elefanti dei dischi ritenuti non abbastanza vendibili in formato digitale, o penalizzati da vicende contrattuali intricate. Alla fine, ma proprio di recente, è riapparso sulle piattaforme di streaming e di downloading, e quindi possiamo parlarne quasi come di un album nuovo. Matthew Fisher è stato, a varie riprese, l’organista dei Procol Harum. Se ci si ricorda di quel gruppo per le canzoni scritte soprattutto dal cantante e pianista Gary Brooker, la componente classicheggiante, barocca, del sound dei primi album proveniva soprattutto dal gusto di Fisher e dal suo modo di suonare l’organo Hammond: la linea melodica che apriva A Whiter Shade of Pale era un’idea di Fisher (che, a dire la verità, l’aveva presa in prestito da un preludio di Bach). Uscito dai Procol Harum – dove, malgrado qualche eccezione, era bloccato come autore dalla prolificità di Brooker – Fisher è passato per qualche anno da un gruppo all’altro, perfino dagli Spiders of Mars di David Bowie, e finalmente poi ha ottenuto un contratto per un album proprio, da cantautore e polistrumentista. Sarebbe facile dire che Journey’s End suona come un disco dei Procol Harum perché così avrebbe attirato meglio il pubblico di uno dei gruppi più famosi di quell’epoca, ma vale soprattutto il reciproco, e cioè che Fisher era stato uno dei padri di quel suono. E poi la sua voce era molto diversa da quella di Brooker, e certo meno affascinante. Fu un bel tentativo, che non ebbe molto seguito, anche se la produzione era – come si suol dire – lussuosa: il tecnico del missaggio era Geoff Emerick, un nome che dovrebbe dire qualcosa ai fan dei Beatles.

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