La sala grande dell’Auditori di Barcellona ha ospitato, una settimana fa, un concerto dell’Orchestra Sinfonica di Barcellona e Nazionale della Catalogna, con un programma molto interessante e vario, che ha attirato un gran pubblico, da tutto esaurito. Il pezzo forte era la Sinfonia delle Alpi di Richard Strauss, che probabilmente sollecitava i gusti di una città notoriamente wagneriana, e una tradizione esecutiva che anche di recente si era soffermata sulla musica orchestrale di Richard Strauss, e più in generale sul sinfonismo tardoromantico. Ma, quasi in contraddizione, l’altro brano che caratterizzava il programma era un Concerto per clavicembalo, archi e percussione, una composizione del 1955-56 di Robert Gerhard, catalano di nascita (a Barcellona il suo nome si pronuncia Roberto Gerárd). Dopo i primi studi a Barcellona si spostò a Vienna e fu allievo di Schönberg, per poi trasferirsi, in esilio, a Londra.
Il titolo del suo Concerto è certamente bartokiano, ma la data e l’uso del clavicembalo come strumento solista rimandano alla musica nuova degli anni Cinquanta, quella non compromessa dal fascino per il serialismo integrale e dai dibattiti di Darmstadt, che emergeva lontano dalla sfera di influenza franco-tedesca: pensiamo a Frank Martin, Martinu, Ligeti o Elliot Carter.
Certo il clavicembalo fatica a emergere in un contesto orchestrale novecentesco: nella sala era piazzato proprio di fronte al pubblico, più vicino di qualsiasi altro strumento. Ma soprattutto era suonato da uno dei clavicembalisti più noti e apprezzati ora, l’iraniano-americano Mahan Esfahani. Anche se notoriamente il clavicembalo è insensibile all’energia della pressione dei tasti (non a caso Bartolomeo Cristofori lo trasformò nel fortepiano…), Esfahani suonava con tanta foga che il suo strumento sembrava riuscire a sovrastare il “tutti”. Accoglienza calorosissima, per una musica asciutta, scultorea, certamente non pensata per blandire le orecchie più pigre. I bis che Esfahani ha concesso hanno ricevuto applausi sterminati.
Prima, all’inizio del concerto, era stata la volta di un’altra solista, Jaha Lee, concertino (primo violino) dell’orchestra, impegnata nella Fantasia in Do maggiore per violino e orchestra, op. 131, di Robert Schumann, un brano del 1853, fresco e adatto ad aprire un concerto impegnativo, che si segnala più che altro per il fatto che Joseph Joachim, il violinista più autorevole della seconda metà dell’Ottocento, si concesse per eseguirlo, dopo aver rifiutato il Concerto per violino che lo stesso Schumann gli aveva dedicato.
Infine la Alpensinfonie di Strauss, diretta – come il resto del concerto, naturalmente – dal francese Ludovic Morlot, attuale direttore musicale dell’orchestra catalana e un curriculum di grande prestigio. Morlot dirige con un gesto asciutto, essenziale, spesso solo con la mano destra e la bacchetta, limitando la sinistra a qualche attacco. Ricorda molto il modo in cui dirigeva Richard Strauss. Risultato potente, emozionante, come era quasi inevitabile con un’orchestra gigantesca che occupava tutto lo spazio del grande palcoscenico dell’Auditori, e anche oltre.
Applausi a non finire al direttore, all’orchestra e alle sue prime parti, fra le quali una bravissima prima tromba, Mireia Farrés, accolta da un’ovazione.
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