Sovietistan, l’avvincente reportage attraverso le cinque repubbliche post-sovietiche dell’Asia Centrale, scritto dalla giornalista, antropologa e scrittrice norvegese Erika Fatland, è più di un semplice racconto ben scritto. Procedendo per aneddoti, ha fatto affiorare in me memorie che credevo di avere rimosso, tanto da essere diventato parte del mio vissuto.
Più mi immergo nell’affascinante viaggio che la Fatland, oltre dieci anni fa, ha intrapreso via terra per paesi avvolti ancora oggi in un’aura di mistero, più fatico a distinguere chi, tra me e lei, abbia davvero visto e vissuto certe esperienze. Perché anch’io, come lei, ho viaggiato in Asia Centrale in quegli anni e, senza saperlo, mi sono lasciata sorprendere dai medesimi dettagli. Quelli che la Fatland chiama “punti culminanti”.
Ad Almaty, la città più cosmopolita del Kazakistan, spopolano le “scuole del sesso”, dove donne ricche e sofisticate affinano le loro arti seduttivi per legare a sé i loro uomini. In campagna, la spregiudicatezza dei centri urbani lascia il posto a culti e tradizioni secolari. In un paesino arroccato tra le montagne vive l’ultima derviscia esistente, una vecchina nota in tutta l’ex Unione Sovietica come Bifatima Apa.
Oltre il confine meridionale con il Kazakistan, c’è il verdissimo Kirgizistan, di gran lunga meno autoritario e repressivo degli altri stan. Anche qui, la donna non è considerata alla stregua dell’uomo, tanto che ancora oggi è vittima di una pratica crudele e violenta. L’alaa kachuu, o ratto della sposa, consiste nel rapimento e matrimonio forzato, cui migliaia di donne – in molti casi minorenni – sono sottoposte ogni anno.
Le interviste sono avvenute con la collaborazione di Giulia Bertoluzzi e Costanza Spocci.
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