Il senso di meraviglia che ci colpisce riconoscendo su pareti rocciose delle immagini tracciate migliaia di anni fa è una delle costanti degli studi dedicati alle pitture rupestri del paleolitico. Pensare che i nostri lontanissimi antenati utilizzassero segni non molto diversi da quelli che traccerebbe oggi un bambino per rappresentare uomini o animali ha qualcosa di magico e allo stesso tempo ci dice qualcosa di molto profondo sul nostro bisogno di rappresentare i nostri pensieri.
È partito da qui Michele Cometa - studioso di cultura visuale - per tracciare nel suo ultimo saggio (Paleoestetica. Alle origini della cultura visuale, Raffaello Cortina) una mappa delle capacità e delle abitudini cognitive che presiedono al nostro fare-immagine. Un saggio in cui molteplici discipline, dalle neuroscienze all’archeologia, dall’etnografia alla biologia evoluzionista dialogano tra loro per interrogarsi non tanto sui significati di segni grafici prodotti in tempi così remoti, ma piuttosto sul perché l’homo sapiens da sempre manifesta la peculiare caratteristica di trasformare sogni e pensieri in immagini e sul persistere delle medesime immagini lungo la nostra evoluzione fino alla contemporaneità.
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