Mi chiamo Nina Altoni e studio letteratura italiana, filosofia e cinema all’Università di Losanna, e oggi vi parlerò di un autore a cui sono approdata da poco e che per primo mi ha accompagnata a scoprire la scena letteraria nipponica.
Haruki Murakami è un accademico, scrittore e traduttore giapponese, vincitore di molteplici premi tra cui il Premio Franz Kafka, il premio World Fantasy, o il Jerusalem Prize, per citarne alcuni. Norwegian Wood si trova tra le opere letterarie giapponesi che hanno riportato maggior successo, ma soprattutto rappresenta per l’autore stesso un traguardo misto di intimità e ardire. Il romanzo infatti è all’origine di un racconto che egli scrisse anni prima: La lucciola, presente nel volume La lucciola, Granai incendiati e altri racconti. È un romanzo ambientato in Giappone, ma ciò che lo rende ancor più personale e vivo, è sapere che Murakami lo iniziò in Grecia, lo continuò in Sicilia e a Roma, nel 1987, ne segnò il punto, rimanendo saldato alla propria patria soltanto con il ricordo.
Forse è ancora troppo acerbo di tempo per farsi strada nella categoria dei classici; lo si potrebbe definire a metà tra un’opera di narrativa letteraria e un romanzo di formazione. Dalla trama si libera un viluppo di ricordi e amore, che s’avvolge e si stringe alla vita di un adolescente universitario. Dalle righe in inchiostro emergono in continuo crescendo note di canzoni che, per dirla volgarmente, hanno fatto la Storia, quella di Murakami, come quella dell’umanità, esattamente quanto il singolo dei Beatles: Norwegian Wood. Storie che nei testi, nella melodia, nella solitudine di una stanza vuota e un disco che perversa in un loop infaticabile sotto la puntina, abbracciano la vita in una stretta malinconica e nostalgica.
Ci sarebbero un oceano di motivi per leggerlo, ma qualcuno affiora dalla punta dell’iceberg: l’assenza di banalità, che trasforma la tipica bellezza convenzionale generalizzata, in un sentimento che travolge chi legge, attraendolo, attraversandolo. Il talento divino di Murakami nel descrivere qualsiasi situazione, azione o cosa, anche la più insignificante, mantenendo una delicatezza serafica che rasenta appena il respiro. Oppure la semplice presenza della musica, che accompagna e stringe protagonista e lettore in un blues di parole e memorie eterne.
Come ho già avanzato un po’ a squarci, a tratti discontinui, questa è una storia che nasce dalle rimembranze di un uomo che, toccata terra dall’aereo su cui è seduto, inizia a rammentare un amore che fu, e allora, con discreta e soave dolcezza, anch’egli a comincia a volare piano sulle eco e le persone del proprio passato adolescenziale. Le descrizioni lievi e leggere sfiorano ogni ricordo con profonda intensità, mentre la narrazione in prima persona allontana qualsiasi giudizio autoriale il lettore si sente libero di affibbiare per convenzione, producendo al contrario un magnifico effetto intimo e autoriflessivo.
È una storia che si crea da sola, segue un flusso indistricabile di memorie e sentimenti, parole delicate suonano un blues malinconico che trabocca di vita. La presenza della musica appare inscindibile dal resto, forse come continuità imprescindibile. La condizione sine qua non intrinseca al racconto, come nella stessa storia la cognizione che la morte è intrinseca alla vita e non l’opposto, si districa dalla realtà sopita e prende forma nella vita del protagonista. Per tutto il libro, sepolta dai sentimenti e dalle sensazioni, una domanda logora i cuori dei ragazzi, scavando valli interiori di uno strano senso di angoscia anche nel lettore: l’amore è desiderio di essere compresi?
Frammenti di discorsi persi, l’inevitabile scorrere di un tempo che si svela traditore, arrestandosi in certi casi, permanendo in altri, l’interiorità, le insicurezze; le note suonate in queste pagine sembra cerchino una risposta, una certezza, ma l’unica che accorre è la sola ad esistere anche in un mondo senza ricordi: «La morte non è qualcosa di opposto, ma di intrinseco alla vita», e forse anche all’amore.
«Non avevo mai sentito nell’orgasmo un urlo così triste». Con questa frase Murakami riesce a riassumere l’intero senso del libro, e ci accompagna con leggerezza ad abbracciare il suono della vita, l’unico blues di certezze che unisce principio e fine in un tempo indissolubile.
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