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Su un altro pianeta

C’è un futuro per l’umanità fuori dalla Terra? Intervista ad Amedeo Balbi, vincitore del Premio Galileo 2023

  • 11 dicembre 2023, 13:45
  • 11 dicembre 2023, 14:23
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Potremmo un giorno lasciare il nostro pianeta e trasferirci da qualche altra parte là fuori nello spazio? Quali i rischi e le difficoltà che dovremmo affrontare per trasferirci fuori dalla terra? Sono superabili oppure no? Ma se anche potessimo farlo, dovremmo farlo davvero?

A queste e ad altre domande cerca di rispondere l’astrofisico Amedeo Balbi, professore associato presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, nel suo libro bel libro Su un altro pianeta. C’è un futuro per l’umanità fuori dalla Terra? (Rizzoli 2022), vincitore della 17esima edizione del prestigioso Premio letterario Galileo per la divulgazione scientifica 2023.

Sconfinare verso Marte e oltre

Il giardino di Albert 02.12.2023, 18:00

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L’esplorazione spaziale, come ricorda anche Balbi, è uno scenario di cui si parla molto in questi ultimi anni: non è più un’esclusiva delle superpotenze della Guerra fredda -oltre settanta nazioni hanno oggi un programma spaziale e sedici di loro hanno capacità di lancio-, ma soprattutto abbiamo assistito all’ingresso delle compagnie private nella competizione: uno su tutti, la SpaceX di Elon Musk. Proprio Musk ha anche contribuito a riaccendere l’interesse pubblico nei confronti dell’esplorazione spaziale, e ha più volte affermato che il suo sogno è dare all’umanità la possibilità di lasciare definitivamente la Terra e diventare una specie multiplanetaria.

Un articolo del numero di dicembre di Le Scienze (Perché non vivremo mai nello spazio, pp. 28-33) ci dice che anche la stessa NASA vuole riportare gli astronauti sulla Luna nel giro di qualche anno e sta investendo molto nel suo programma Artemis, un piano ambizioso e rischioso per stabilire una presenza umana permanente fuori dal nostro pianeta. A questi programmi si affiancano strutture come Biosphere 2, “una Terra in miniatura” vicino a Tucson in Arizona, costruita per simulare un avamposto spaziale, presente anche in luoghi come lo Utah, le Hawaii, il Texas o l’Antartide, e se ne stanno costruendo o progettando anche in Oman, Kenya e Israele: tutte hanno in comune l’obiettivo di imparare a vivere fuori dalla terra stando sulla terra.

Ma allora, potremmo davvero un giorno lasciare il nostro pianeta e trasferirci da qualche altra parte là fuori nello spazio?

Il libro di Balbi, che accanto all’attività di ricerca e di insegnamento, da anni racconta con passione la scienza al grande pubblico sul web, sulla carta stampata, alla radio e in tv, ha il grande pregio non solo di essere scientificamente molto solido e davvero molto ben raccontato, ma anche di avere un approccio equidistante dalla esplorazione spaziale e dai progetti di colonizzazione di altri pianeti, per i quali da sempre, dall’inizio dell’impresa spaziale, c’è stato grande interesse. E l’attrazione nei confronti di ciò che esiste al di fuori della Terra non è mai venuta meno, soprattutto da parte dei giovani. Non sorprende visto che si tratta di un tema ai confini tra scienza e fantascienza, la cui produzione su questi temi è stata così importante da creare un vero e proprio immaginario collettivo: pensiamo ai tanti libri di fantascienza come quelli storici di Isaac Asimov, Ray Bradbury o di Arthur Clarke, o ai film e alle serie tv come Star Trek, dove la nave stellare Enterprise viaggiava alla ricerca di “strani, nuovi mondi”.

Ma c’è sempre stato anche un interesse concreto, scientifico e imprenditoriale: è singolare per esempio pensare che, come scrive Balbi nel suo libro, la Pan Am, la linea aerea che nel film 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick collega la Terra e la Luna, tra il 1968 e il 1971 mise davvero in lista d’attesa oltre novantamila persone interessate ai futuri voli commerciali verso la Luna. Salvo poi fare fallimento negli anni ’90.

E oggi a che punto siamo? Ce lo spiega lo stesso Amedeo Balbi:

Sicuramente sappiamo molto di più di quanto ne sapessimo fino a pochi decenni fa, nel senso che adesso oltre ai pianeti del sistema solare conosciamo anche pianeti intorno ad altre stelle e pian piano li conosceremo sempre meglio. Stiamo anche aumentando il campione statistico in base al quale farci un’idea di come stiano le cose dal punto di vista dell’abitabilità. E questo è importantissimo dal punto di vista strettamente conoscitivo, anche per capire chi siamo noi, com’è il nostro pianeta nel contesto cosmico, se sia una rarità o piuttosto una cosa molto comune. Poi però accanto all’aspetto puramente conoscitivo, esplorativo e scientifico, c’è anche l’ipotesi di migrare su un altro pianeta, e dunque di diventare multiplanetari per sopravvivere, di immaginare che un giorno alcuni di questi mondi potrebbero essere una nuova casa per l’umanità, ipotesi sulla quale è stata fatta molta fantascienza e va benissimo, perché è bello sognare e immaginare altre possibilità; però dal punto di vista dei piani imprenditoriali concreti, è un obiettivo per il momento assolutamente irraggiungibile, fuori dalla nostra portata.

Quali sono allora le ragioni principali che rendono irrealistico per ora questo progetto?

Per quanto riguarda i pianeti fuori del sistema solare, la distanza è l’ostacolo più importante, un ostacolo che non potremo superare in tempi ragionevoli e forse, mi azzardo a dire, che potremmo anche non superarlo mai perché tutto quello che sappiamo sulla fisica e sul funzionamento della realtà, per il momento ci dice che le velocità che possiamo raggiungere saranno ben inferiori alla velocità della luce, e anche se fossero vicine a quelle della luce, le distanze rimarrebbero comunque molto, troppo grandi. E questo purtroppo ci rende estremamente isolati. Come dico spesso forse non siamo soli ma siamo isolati. Per quanto riguarda invece il nostro sistema solare, la difficoltà è che non esiste un luogo che abbia anche solo una vaga somiglianza con il nostro pianeta; la cosa che ci si avvicina di più è Marte che però è molto più ostile di quanto le persone in genere siano portate a pensare. C’è infatti tutta una narrazione intorno al pianeta rosso che ce lo rappresenta come se fosse una nuova frontiera, un pianeta bell’e pronto da terra-formare e colonizzare, cosa che non è assolutamente vera dal punto di vista dei fatti oggettivi della realtà.

Al di là della difficoltà del viaggio, Marte infatti è un posto terribile, molto ostile, e pensare di trasferirsi in massa per ricominciare da capo è veramente molto difficile.

Inoltre lo spazio è complicato, per tutti viaggiare nello spazio non è semplice. Noi fino ad oggi siamo stati soltanto sulla luna, che è una destinazione facilmente raggiungibile, è il corpo celeste più vicino alla terra, ci si va in pochi giorni, quindi è una cosa relativamente a portata di mano. L’abbiamo già fatto e lo rifaremo, ma appunto fare una cosa del genere per Marte sarebbe un problema molto ma molto più complicato sia dal punto di vista del viaggio, sia poi dal punto di vista della permanenza su un pianeta che è estremamente ostile.

Senza contare che, come ci ricorda anche Sarah Scoles sul numero di dicembre de’ Le Scienze (Perché non vedremo mai nello spazio, pp. 28-33) il corpo umano non è adatto allo spazio: il volo spaziale danneggia il DNA, modifica il micro bioma, interferisce con i ritmi circadiani, altera la vista, aumenta rischio di cancro, provoca danni a muscoli e ossa, inibisce il sistema immunitario, indebolisce il cuore e sposta i liquidi verso la testa, il che a lungo termine può essere patologico per il cervello. E questi sono solo alcuni degli effetti.

Quindi la possibilità di migrare su altri pianeti, come spesso vediamo succedere nei film di fantascienza, è ancora remota. Anche se c’è chi pensa che la soluzione migliore per assicurare un futuro a lungo termine all’umanità sia appunto diventare multi-planetari, cioè espandersi su altri mondi nello spazio. E ovviamente tutti pensano a Elon Musk, il sostenitore più famoso e attivo di questa opzione, ma non l’unico.

Questa è un’altra cosa su cui abbiamo una percezione pubblica un po’ distorta, probabilmente perché influenzati da tanta fantascienza, di cui io sono il primo appassionato fan, - in cui astronavi con gli esseri umani arrivano su altri pianeti, e li trovano già come la Terra, con delle forme di vita anche abbastanza simili-, ma tutto questo dal punto di vista scientifico è estremamente inaccurato e discutibile. Esistono dei pianeti che potrebbero sicuramente avere delle analogie con la Terra, anche noi scienziati partiamo da questo presupposto quando cerchiamo di capire come stiano le cose là fuori. Ma questo non significa che la vita che c’è sulla Terra possa essere trapiantabile su un altro pianeta, pur simile al nostro, perché l’evoluzione biologica segue un percorso accidentato, si adatta all’ambiente che trova. Noi siamo espressione della terra, non è un caso che la parola ‘umano’ abbia la stessa radice di ‘humus’, ‘terra’. Siamo veramente un frammento del pianeta che ci ospita. Certo non è impossibile che gli esseri umani possano un giorno andare da qualche altra parte, ma dovranno portarsi dietro un ambiente il più possibile simile a quello del pianeta da cui vengono, e vivere in una bolla.

Al di là delle difficoltà tecnico- scientifiche per ora insormontabili, c’è poi, per Balbi, non meno importante, un madornale errore di fondo, che è quello di pensare alle esplorazioni e alla possibile colonizzazione spaziale, come a un’operazione di salvataggio.

La colonizzazione dello spazio, di altri mondi potrebbe sembrare una via d’uscita alle nostre crisi presenti e future, e assicurare un lunghissimo avvenire all’umanità, ed è una corrente di pensiero di cui di questi tempi si parla molto, soprattutto da parte di certi imprenditori come Elon Musk, ma è irrealistica per molte ragioni. Intanto perché, al di là delle difficoltà oggettive e per ora insormontabili, lo sforzo che andrebbe fatto per portare un manipolo di esseri umani su Marte e renderli autosufficienti sarebbe enorme dal punto di vista tecnologico e finanziario. Inoltre non li metterebbe più al sicuro, anzi, li renderebbe probabilmente più vulnerabili, in una situazione di maggiore precarietà e pericolo rispetto a quella che c’è sul nostro pianeta. Quindi di fronte a un’eventuale catastrofe sia autoindotta sia naturale, sarebbero sicuramente molto più indifesi di coloro che rimarrebbero sulla Terra, i quali comunque farebbero parte di una rete che siamo riusciti con difficoltà a mettere in piedi nel corso dei millenni. Per non parlare poi del fatto che l’investimento economico finanziario per procurarci questa presunta via di fuga sarebbe molto più ingente di quello che invece servirebbe per stare bene qui, su questo pianeta.

Ma anche se per magia la fuga dalla Terra diventasse di colpo una strada praticabile, ci spiega ancora Balbi, il trucco non ci salverebbe:

E’ facile mostrare che se mantenessimo l’attuale tasso di crescita della popolazione e di consumo delle risorse, anche espandendoci nello spazio alla velocità della luce e colonizzando ogni sistema stellare incontrato lungo il percorso, nel giro di poche migliaia di anni non avremmo abbastanza pianeti da occupare. E dunque la cosa che ci deve preoccupare e occupare di più sono i cambiamenti che noi stessi come specie stiamo provocando sul pianeta, ai quali prima poi dovremo cercare di porre rimedio.

Ma allora Elon Musk e colleghi, così come la NASA tra gli altri, con i loro progetti di colonizzazione spaziale sono destinati al fallimento?

Bellissima domanda. Mi viene da dire che avranno grosse difficoltà; io credo che in questo momento quello che loro stanno facendo sia dare una visione, abbastanza indefinita, e a lungo termine. Musk ci dice che se volessimo, potremmo andare su Marte entro il 2050, ma non c’è un vero piano, un progetto di fattibilità, è qualcosa di estremamente vago, sembra più una ‘vision’, come dicono gli imprenditori. Molto probabilmente il ritorno economico lo hanno più a breve termine con altri progetti che in qualche modo sono meno visibili, ma che si accompagnano a questa idea più visibile ma irrealistica della colonizzazione spaziale: penso alle reti di satelliti che Musk sta mettendo in piedi e che è un po’ sotto traccia : rete di satelliti che possono incidere non poco sulle vicende terrestri, -come abbiamo visto con il caso dell’Ucraina, e di Israele- e che gli dà moltissimo potere di controllo sulle comunicazioni per esempio.

Molte di queste compagnie spaziali indubbiamente stanno facendo molto anche per quanto riguarda il trasporto delle merci e degli astronauti nello spazio, e in questo momento sono anche un supporto importante per le agenzie spaziali tradizionali. Ed è in questi ambiti che effettivamente c’è business, mentre l’idea della colonizzazione di Marte credo sia più uno specchietto per le allodole

Ma allora perché investire così tanto nella esplorazione spaziale?

E’ importante che la conoscenza e anche l’esplorazione spaziale proseguano, perché così capiamo meglio anche il nostro Pianeta: paradossalmente, proprio lo studio dell’universo e l’esplorazione spaziale ci hanno resi più cauti sulla possibilità di accedere a risorse illimitate senza pagarne le conseguenze in termini di modifiche irreversibili dell’ambiente e del clima. I primi studi accurati sull’effetto prodotto dall’anidride carbonica nell’atmosfera di un pianeta furono sviluppati a metà del XX secolo per comprendere il clima surriscaldato di Venere.

Venere è un esempio di pianeta che è andato ad un certo punto completamente fuori controllo per ragioni naturali, perché ha avuto un effetto serra a valanga che lo ha reso completamente inabitabile e incredibilmente caldo. Marte ha avuto una storia opposta in qualche modo, perché ha perso l’atmosfera, non ha abbastanza effetto serra per regolare e mitigare la temperatura, quindi è un luogo incredibilmente freddo e arido. E già questi due esempi mostrano come, partendo da condizioni iniziali abbastanza simili, poi i cammini possano divergere radicalmente.

Lo studio dell’universo e di ciò che c’è fuori dalla Terra potrebbe dunque indicarci nuove soluzioni per rendere la nostra presenza più compatibile con i limiti del nostro ambiente planetario. È un po’ un memento mori…

Esatto, e questo credo sia un po’ il vero valore dello studio dell’universo. Quando studiamo l’universo in realtà alla fine ci guardiamo un po’ allo specchio; non faremmo tutto questo se non ci stesse dicendo anche qualcosa di noi.

E oggi a maggior ragione perché proprio nell’universo, in questo silenzio cosmico che ci circonda, noi vediamo anche in qualche misura delle storie alternative alla nostra, di come le cose possono andare, di come sarebbero potute andare anche sulla Terra. E secondo me questo ci dà un termine di paragone e anche un contesto per capire meglio che la Terra è l’unico posto che abbiamo, non perché è stata costruita per noi come si pensava nell’antichità, ma perché noi ci siamo adattati a questo posto e non ne abbiamo un altro

Quindi, diventare una specie multiplanetaria non ci salverà, non solo perché è una chimera, ma perché per farlo dovremmo persistere lungo la strada che ci ha messo nei guai.

Forse le specie davvero mature sono quelle che rinunciano alle mire predatorie inscritte nel proprio retaggio biologico, e trovano una traiettoria sostenibile che concili un benessere il più possibile diffuso con la salvaguardia del proprio mondo di origine e con un minore impatto ambientale. E magari l’assordante silenzio cosmico che ci circonda non è l’indice di una precoce estinzione di supposte società tecnologiche, ma la prova che per durare a lungo bisogna imparare a bruciare più lentamente. Forse non li vediamo proprio perché hanno capito come vivere bene facendo meno chiasso. La Terra è la nostra vera arca spaziale di cui dovremmo avere cura.

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