Mi chiamo Patrizia e sono una studentessa in Lingua, Letteratura e Civiltà italiana all’Università della Svizzera italiana. Oggi vi propongo un testo a me molto caro, per me una sorta di livre de chevet: il titolo è Cecità, edito da Feltrinelli nel 1996, romanzo del portoghese nobel José Saramago (1922-2010): scrittore prolifico e accurato traduttore è stato insignito nel 1998 del premio Nobel per la letteratura.
Cecità è un romanzo dai toni apocalittici, di forte critica sociale, che ci presenta l’umanità come la vedremmo al suo stato brado, nei suoi aspetti più primordiali. In una città non meglio definita, un uomo siede in una giornata ordinaria nella sua automobile; è fermo in corsia, aspettando che il semaforo diventi verde. La fila si muove, le prime auto passano oltre, ma lui rimane immobile: è diventato cieco, dice. A questo primo caso di cecità ne seguono molti altri, tanto che il governo, allarmato per il rapido diffondersi della malattia, decide di isolare i contagiati - e chi con loro ha avuto un contatto - in un manicomio abbandonato.La comunità cerca dapprima di organizzarsi come farebbe una società ai suoi esordi, ma man mano che il numero dei nuovi arrivati cresce, una serie di problematiche emergono: il numero dei letti non è sufficiente, l’igiene personale, complice la cecità, viene meno, le razioni di cibo iniziano a essere contese da alcuni gruppi di prepotenti. In questo insolito ordine sociale, si instaureranno tra i malati nuovi ruoli di potere, l’essere umano sembra ridotto a una belva e affiora il peggio della natura umana: l’indifferenza, la
paura, la violenza (fisica e psicologica) dilagano all’interno della struttura. Tra questa orda c’è però un’unica donna, immune alla malattia che fungerà da guida ai malcapitati, sarà osservatrice involontaria, occhio di giudice, benevola consolatrice, una discrepanza tra le costanti di questa inquietante segregazione.
Il romanzo è uno zoom sulla natura umana, esposta nella peggiore delle sue espressioni, ma in cui brilla, come una piccola stella, anche un barlume del suo aspetto più sublime: la compassione e la solidarietà.
Eppure siamo noi stessi ad essere gettati nella cecità: le figure si presentano a noi tanto vivide che ci coinvolgono in prima persona, l’ironia di cui il narratore permea le massime del romanzo ce lo fa apparire tutto nostro.
I dialoghi non sono posti a capoverso, ma inseriti liberamente nella narrazione, accanto al narratore esterno: questa scelta stilistica rallenta la nostra lettura, ci spinge a modificare il nostro metodo di decodifica, il che è congeniale alla ristrutturazione dello sguardo a cui mira il romanzo.
Qui il peggio dell’uomo affiora, ma affiora così anche la sua capacità di lotta, di riflessione, di apprendimento nelle vicissitudini. È come se Saramago ci gettasse davanti a uno stereogramma: ci spinge a guardare oltre le linee confuse, ci dà un metodo per vedere oltre il "delicato velo dell’apparenza"; il tutto intriso di un'ironia sottile, che oltre a rendere la lettura piacevolissima, consolida il patto col lettore. Una cecità che vuole illuminare, che mira a ricostruire il nostro sguardo o a farcelo riacquisire: una cecità che vuole insegnarci a guardare.
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