Compiendo un tuffo nel passato fino alle origini della civiltà, nell’antica terra mesopotamica, ecco apparire davanti a voi Gilgameš, re di Uruk.
E con lui dalle nebbie del tempo sbuca Nicola, con la sua consueta recensione. Oggi vi presento l’opera considerata come il primo poema epico dell’umanità: L’epopea di Gilgameš. Il suo autore è purtroppo ignoto, ma il poema nella sua forma contemporanea è stato curato da Nancy Katharine Sandars, importante archeologa britannica. Adelphi ne ha pubblicato la versione italiana, tradotta da Alessandro Passi, nel 1986.
La ricostruzione del poema non è stata affatto facile: inciso su molteplici tavolette di argilla, esso è stato rinvenuto nell’epoca d’oro degli scavi archeologici, a metà dell’Ottocento. In origine era frammentato in cinque poemi sumerici, ma in seguito il testo è stato unificato in un’unica narrazione tra il 1600 e il 1100 a.C..
Giungiamo ora alle tre ottime ragioni per leggerlo. Innanzitutto essendo un poema epico la storia narrata è un perfetto miscuglio di avventura allo stato puro, di morale e di tragedia. In questo senso non è per nulla diverso dai poemi omerici o dai grandi cicli bretoni e carolingi che tutti ben conosciamo. A questo proposito, per i grandi appassionati di storia e comparatistica questa lettura si rivelerà una vera e propria miniera d’oro: infatti quest’opera non ha solamente influenzato i poemi omerici, ma vi si trovano forti similitudini anche nella narrazione biblica cristiana ed ebraica. Infine, leggere il poema significa entrare in contatto con le origini della civiltà e dell’umanità stessa.
Cosa ci racconta L’epopea di Gilgameš? Il poema narra le eroiche imprese di Gilgameš, presunto re di Uruk vissuto verso il 2700 a.C. e in seguito divinizzato. Presentato all’inizio del racconto come per un terzo uomo (da parte di padre) e per due terzi dio (da parte di madre, la dea Ninsun), l’eroe da quest’ultima ha ereditato grande bellezza, forza e irrequietezza, dal primo la mortalità. L’epopea narra la preoccupazione del giovane re con la sua condizione di mortale, che lo condurrà a compiere un lungo viaggio in cerca del suo rimedio: la conoscenza e la vita eterna. In origine solo, Gilgameš conoscerà presto Enkidu (l’uomo creato dagli dèi con dell’argilla), che diventerà il suo migliore amico e compagno di avventure. I due viaggeranno a lungo affrontando nemici vari, tra i quali il Gigante Humbaba, ma soprattutto sconfiggeranno il Toro del Cielo, inviato dalla dea Ištar a devastare la Mesopotamia dopo che Gilgameš aveva rifiutato le sue avances, addirittura canzonandola. Il viaggio alla ricerca dell’immortalità condurrà Gilgameš fino a Utnapištim, unico sopravvissuto al Diluvio e protetto del dio Ea, il quale conosce il segreto degli dèi e condivide questa conoscenza con l’eroe, rivelandogli dove si trova la pianta che dona eterna giovinezza.
Il primo poema epico dell’umanità affonda dunque le sue radici in una delle questioni più antiche e permeanti della vita umana: il rapporto con la morte. Sin dalle sue origini possiamo vedere come la produzione letteraria umana si sia concentrata sul tema della morte e della memoria. I problemi che affliggono il giovane re Gilgameš non sono dunque poi così diversi dai problemi che possono affliggere la nostra contemporaneità. Cosa succederà dopo la nostra morte? Qualcuno si ricorderà di noi? Verremo dimenticati? Non sarebbe meglio allora vivere eternamente, così da non perdere i propri cari? Il viaggio epico compiuto dal nostro eroe è un viaggio alla ricerca di queste risposte, con una soluzione che forse non è così banale come può sembrare a prima vista. Certo è, che in qualche modo, direttamente o indirettamente, Gilgameš ha ottenuto la risposta che cercava: la sua fama e la sua leggenda lo hanno reso un eroe immortale dell’umanità, e le sue gesta continuano a essere tramandate di generazione in generazione, fino a voi, i suoi lettori moderni.
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