Cultura

La gentilezza non basta

Sfatiamo il “mito della gentilezza”, quando è paternalistica, imposta e non consensuale. E quando non porta a cambiamenti sistemici.

  • Oggi, 14:23
lentezza, gentilezza, padre con figlio al parco, camminare, tramonto
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Di: Elena Panciera 

Possono coesistere rabbia e gentilezza? Me lo sono chiesta qualche anno fa, scrivendo un “manifesto” dei miei valori. In un mondo pieno di violenza – di fatti e di linguaggio – volevo contrapporre una narrazione positiva, pacata, scevra dalle polemiche del giorno, ragionata. Filtrata. Volevo portare avanti una comunicazione gentile, e insegnare ad altre persone a farlo. Ma credo anche nel sacrosanto potere della rabbia, soprattutto quella di persone marginalizzate che lottano per i loro diritti. («Perché le persone discriminate sono sempre così pesanti?», si chiede Shata Diallo, analizzando i suoi sentimenti di tristezza e rabbia nell’omonimo articolo su «Alley Oop. Il Sole 24 Ore».)

Nella mia idea, non c’è una contraddizione tra rabbia e gentilezza. Riconosco a chi vive un’esperienza di discriminazione il diritto di arrabbiarsi, e di far sentire la propria rabbia anche in modi violenti. Personalmente, scelgo di non mostrarla in pubblico, se non come ultima risorsa, dopo ogni tentativo di conciliazione “gentile”. Questa scelta ha un costo. «Non provare rabbia è un privilegio», ci ricorda l’illustratrice Chiara Meloni (@chiaralascura su Instagram); ma anche provarla, decostruirla, digerirla e riproporre lo stesso messaggio con toni più pacati lo è. Per esempio, significa che ci si può prendere cura della propria salute mentale, perché si ha una rete affettiva e risorse economiche da pagare la terapia. Non tutte le persone marginalizzate e oppresse possono farlo.

“Gentilezza” è una parola che può avere diverse interpretazioni, e soprattutto applicazioni. Proprio come “inclusione”, che infatti Fabrizio Acanfora propone di sostituire con “convivenza delle differenze”, perché esiste uno squilibrio di potere tra chi include e chi viene incluso (In altre parole, effequ, 2021). Anche “gentilezza” rischia di presentare questa diseguaglianza. 

Mi ha aperto gli occhi Rebekah Taussig, ricercatrice, disabile e attivista, che condivide episodi di “gentilezza” subìta da parte di volenterose persone non disabili. Tra queste, un premuroso signore che vuole aiutarla a caricare la spesa in macchina a tutti i costi, nonostante non gli sia stato chiesto, perché è terrorizzato che lei cada. E quindi le urla affannato da un capo all’altro del parcheggio: «Non cadere, non cadere!» (Felicemente seduta, Le plurali, 2022). Taussig spiega: «Non sto dicendo che nessuno dovrebbe mai aiutare una sconosciuta in un parcheggio [...] per essere veramente gentile. Ma voglio spingere a ripensare a quando le azioni sono, veramente, gentili e utili».

Il fatto è che l’«idea che le persone disabili siano delle “poverine” da aiutare è ancora molto diffusa», nota Ilaria Crippi (Lo spazio non è neutro, Tamu, 2024). E riporta la differenza tra “caring (cioè prendersi cura, interessarsi al problema) e “careless caring” (un’attenzione disattenta), studiata dall’esperta di disability studies Tanya Titchkosky. Sono esempi di “attenzione disattenta” «parlare a voce alta con persone sorde o cieche; tenere porte aperte in silenzio a persone cieche; raccomandare percorsi pieni di barriere a chi usa una sedia a rotelle» (The Question of Access, University of Toronto, 2011, traduzione mia).

Taussig non parla di “caring” ma di “kindness”, cioè di “gentilezza”: «quando penso a una gentilezza che fa del bene a chi la riceve, non penso alla persona che mi passa un tovagliolo quando vede che cerco di raggiungere la pila collocata su un alto bancone da ristorante; ma penso, invece, alla persona che nota che i tovaglioli sono fuori dalla portata di chiunque sia più in basso, perché usa una sedia a rotelle o non può allungare le braccia, e cambia posto ai tovaglioli. Una gentilezza che porta con sé una facilitazione e un accesso significativi condurrà a cambiamenti sostenibili, sistematici e potenti, che rendono il mondo più accessibile a più persone».

Allargando lo sguardo ad altre comunità, possiamo notare che l’idea che chi fa parte di comunità marginalizzate sia da compatire è molto diffusa: basta pensare alle “povere” persone “dell’Africa” (che è un continente, ma nella nostra ignoranza occidentale la trattiamo come se fosse uno Stato). Talmente “povere” da doverle aiutare anche senza aver ricevuto richieste in tal senso. Talmente “povere” da volergli insegnare tutto, dalla matematica alla democrazia, passando ovviamente per la religione, dall’alto della nostra presunta superiorità bianca e del nostro pensiero coloniale mai davvero ripudiato e decostruito. Ma sono “poverine” anche le persone LGBTQIA+, le persone con malattie croniche, quelle neurodivergenti (autistiche, ADHD, dislessiche e via dicendo)… Insomma: chiunque non faccia parte della maggioranza delle persone bianche, etero, cisgender (che si riconoscono nel genere assegnato alla nascita), con un corpo temporaneamente non disabile può diventare improvvisamente oggetto di atti di “gentilezza” indiscriminati e soprattutto non voluti. Non consensuali.

Ecco perché la parola “gentilezza” va ripensata e risemantizzata. Non va bene se è rivolta solo da chi ha più potere a chi ne ha meno, senza consenso. Non va bene se esiste solamente a discrezione della disponibilità, del tempo, delle energie di chi la agisce. Non va bene se è usata come scusa per evitare cambiamenti sistemici.

«L’obiettivo non è evitare di cadere o di avere bisogno di aiuto», dice Taussig. «L’obiettivo è essere visti, interpellati, creduti, valutati per quello che siamo, che ci sia permesso di esistere proprio in questi corpi, è essere invitati alla festa e incoraggiati a ballare in qualunque modo vogliamo». Taussig suggerisce come mostrare gentilezza reale alle persone disabili. Questi consigli valgono per ogni persona che appartiene a comunità marginalizzate: «Invitatele a parlare nella vostra organizzazione, compagnia o nei programmi. Permettete alle persone disabili di interpretare più ruoli, oltre a fare quelli grati che ricevono l’aiuto di generosi filantropi. Assumete ingegneri, ballerini, amministratori d’ufficio, comici, avvocati, relatori e insegnanti disabili, per farli partecipare al vostro mondo e fate del vostro meglio per rendere quel mondo accessibile per loro. E se vogliamo proprio usare la parola “gentilezza” per descrivere questo tipo di inclusione, dobbiamo riconoscere che la “gentilezza” inclusiva non è solo un favore che estendiamo alle persone disabili: includere le persone disabili è un atto di “gentilezza” verso tutti noi. Perché ascoltare voci che di solito vengono zittite porta sul tavolo sfumature, resistenza, creatività, bellezza, innovazione e forza» (Felicemente seduta).

Ecco perché la gentilezza non basta. Servono anche rispetto e consapevolezza.

06:46

Una classe multietnica

RSI Cultura 05.07.1993, 13:14

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