In occasione del Festival di letteratura e traduzione Babel 2024, Emanuela Burgazzoli ha intavolato, per la trasmissione Moby Dick, una discussione più che mai attuale: il legame della letteratura con l’impegno civile, politico e sociale nella nostra contemporaneità. Gli ospiti della conversazione sono Lorenzo Flabbi, critico letterario, saggista, editore e traduttore, Massimo Gezzi, poeta e docente di italiano presso il Liceo Lugano 1 e Sara Rossi Guidicelli, giornalista, scrittrice e caporedattrice della Rivista Tre Valli.
Il tema del legame tra letteratura e realtà, peraltro, si sposa perfettamente con il fil rouge di Babel 2024, ossia la Francia, considerato uno dei paesi europei dove la letteratura ha intrattenuto i più forti intrecci con il pensiero filosofico e politico tra Otto e Novecento. Esisteva in Francia, infatti, un’importante tradizione culturale che si metteva in dialogo con le grandi questioni sociali, tanto da essere soprannominata littérature engagée. Ad essa appartengono, per citarne solo alcuni, scrittori del calibro di Victor Hugo, Émile Zola e Jean-Paul Sartre, tutti testimoni di una realtà che, attraverso i loro scritti, cercarono di mettere in discussione aspirando ad un cambiamento.
Il rapporto tra letteratura e realtà, tra letteratura ed impegno, tuttavia, non fu di certo un’invenzione dell’Ottocento, né peculiarità esclusiva della Francia. Si potrebbe da un lato certamente dire che, per merito dei moti risorgimentali europei del XIX secolo, il sodalizio tra letteratura e istanze politico-sociali abbia avverato in quel secolo, nel concreto, le più grandi conquiste civili e abbia sancito la definitiva vittoria delle democrazie sui regimi feudali: tanto le insurrezioni quanto le produzioni letterarie professavano le medesime denunce, rivendicavano i medesimi cambiamenti da mettere in atto quanto prima nel nome della libertà. Dall’altro lato, storicizzando il rapporto tra letteratura, impegno politico e realtà, capiremmo che esso ha radici molto più profonde ed è figlio di una tradizione che parte dalla Grecia antica ed arriva, sotto diversa forma, sino ai giorni nostri.
Il motivo per cui la letteratura fu, fin dalle origini, legata alla realtà e, in senso lato, all’impegno civile è rintracciabile, forse banalmente, nel fatto che l’espressione letteraria – e, più in generale, artistica – è per sua natura frutto dell’epoca in cui essa sorge. Le prime grandi conquiste dell’intelletto umano hanno portato gli oratori classici a sistematizzare, per esempio, gli ambiti dell’oratoria e della retorica, della politica e dell’etica, della guerra e della religione: tutti ambiti fondamentali dell’esistenza umana che esercitano un peso sulla civiltà perché capaci di metterla in discussione e plasmarla di conseguenza.
Statua di Platone
Se usciamo dai confini della trattatistica per entrare nel merito della poesia, che, nella sua essenza, potrebbe essere definita come espressione letteraria del sentimento, capiamo che essa è, in realtà, sempre orientata verso l’esterno, verso il mondo che la ospita. Sono casi esemplari, per citare i più decisivi in Italia, Dante Alighieri nel Medioevo, Giuseppe Parini in epoca romantica, Giacomo Leopardi, Ugo Foscolo e Giosuè Carducci nell’Ottocento, Pier Paolo Pasolini nel Novecento. Tutti scrittori che, investiti da spirito poetico e, dunque, da profonda umanità, si adoperarono, direttamente o indirettamente, nella solenne missione di civiltà attraverso l’espressione letteraria.
Per dimostrare quanto la riflessione sulla politica e sul valore civile della poesia sia centrale nell’opera di Dante, basti rammentare alcuni versi di Paradiso XXX, quando Beatrice rivolge al poeta, ormai giunto al centro dell’Empireo, parole che descrivono il “gran seggio” destinato ad accogliere l’anima di Arrigo VII, l’imperatore che rappresenta per Dante l’unica speranza di concordia in Europa, in quanto il solo in grado di ristabilire i ruoli e le funzioni originari di Impero e Papato:
E ’n quel gran seggio a che tu li occhi tieni
per la corona che già v’è sù posta,
prima che tu a queste nozze ceni,
sederà l’alma, che fia giù agosta,
de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia
verrà in prima ch’ella sia disposta.
La cieca cupidigia che v’ammalia
simili fatti v’ha al fantolino
che muor per fame e caccia via la balia.
D. Alighieri, Paradiso, XXX, 1230 ca., vv. 133-148.
Parini, con Il Giorno, tentò di risvegliare l’assopita nobiltà settecentesca, che sembra aver dimenticato le sue antiche funzioni a causa di un crollo morale che fece dei vizi le sue virtù, della pigrizia la sua fede e della moda la sua ragion d’essere. Non è un caso che l’intera opera, di stampo fortemente satirico, sia dedicata proprio alla Moda:
A te, vezzosissima Dea, che con sí dolci redine oggi temperi e governi la nostra brillante gioventú, a te sola questo piccolo Libretto si dedica e si consagra. Chi è che te qual sommo Nume oggimai non riverisca ed onori, poiché in sí breve tempo se’ giunta a debellar la ghiacciata Ragione, il pedante Buon Senso e l’Ordine seccaginoso, tuoi capitali nemici, ed hai sciolto dagli antichissimi lacci questo tuo secolo avventurato? Piacciati dunque di accogliere sotto alla tua protezione, ché forse non n’è indegno, questo piccolo Poemetto.
G. Parini, Il Mattino, Alla Moda, 1763.
La produzione poetica di Giacomo Leopardi, sotto questo aspetto, non fa eccezione. Il poeta di Recanati ha espresso tanto in prosa quanto in poesia la condizione intellettuale, morale e civile di un secolo, l’Ottocento, in piena crisi dei valori. In Leopardi, come dice bene Cesare Luporini, “il discorso politico, quando c’è, è inseparabile dal discorso morale, che c’è sempre”. Bisogna intendersi: Leopardi non fece mai direttamente politica, perché la sua riflessione ruota sempre attorno all’esistenza del male. In questo processo, tuttavia, è costante il monito di una perduta altezza civile e morale che occorre recuperare nel presente:
O Italia, a cor ti stia
Far ai passati onor; che d’altrettali
Oggi vedove son le tue contrade,
Nè v’è chi d’onorar ti si convegna.
Volgiti indietro, e guarda, o patria mia,
Quella schiera infinita d’immortali,
E piangi e di te stessa ti disdegna;
Che senza sdegno omai la doglia è stolta:
Volgiti e ti vergogna e ti riscuoti,
E ti punga una volta
Pensier degli avi nostri e de’ nepoti.
G. Leopardi, Sopra il monumento di Dante, 1818, vv. 7-17.
Dei poeti evocati finora, un posto di prestigio dal punto di vista dell’impegno civile e politico lo occupa la poetica di Giosuè Carducci. Avendo vissuto nel pieno del Risorgimento italiano e dell’Unità d’Italia, divenne uno dei più influenti scrittori italiani e, attraverso la poesia, professò i suoi ideali repubblicani, democratici, patriottici e anticlericali, denunciando al contempo, con i suoi versi, le bassezze morali toccate dall’Italia di quegli anni, cui antidoto era da lui individuato nel rinnovamento spirituale attuabile attraverso il recupero dei valori risorgimentali, così presto dimenticati. Il suo grande eroe e maestro fu Giuseppe Mazzini, a cui dedicò un sonetto di grandissimo valore civile:
Qual da gli aridi scogli erma su ‘l mare
Genova sta, marmoreo gigante,
Tal, surto in bassi dí, su ‘l fluttuante
Secolo, ei grande, austero, immoto appare.
Da quelli scogli, onde Colombo infante
Nuovi pe ‘l mar vedea mondi spuntare,
Egli vide nel ciel crepuscolare
Co ‘l cuor di Gracco ed il pensier di Dante
La terza Italia; e con le luci fise
A lei trasse per mezzo un cimitero,
E un popol morto dietro a lui si mise.
Esule antico, al ciel mite e severo
Leva ora il volto che giammai non rise,
—Tu sol—pensando—o ideal, sei vero.
G. Carducci, Giuseppe Mazzini, 1872.
Per approdare al Novecento italiano e concludere questa breve rassegna storico-poetica, è il caso di citare uno studioso che ha fatto della militanza intellettuale l’espressione più alta del suo impegno politico e civile. Stiamo parlando di Benedetto Croce, filosofo, storico e critico letterario italiano. Croce, nel 1903, fondò La Critica, rivista di letteratura, storia e filosofia che, attraverso pubblicazioni bimestrali, si apriva al dibattito culturale e politico italiano nonché internazionale. Attraverso la sua rivista, Benedetto Croce risolse le due urgenze che lo animavano, una culturale, l’altra politica, individuando in essa il mezzo attraverso cui compierle entrambe:
Per lunghi anni, avevo quasi sempre sofferto di disarmonia tra ciò che facevo e ciò che, sia pure confusamente, sentivo che si doveva fare; di scissione tra l’uomo pratico e il teoretico (…). Ma, nel lavorare alla Critica, mi si formò tranquilla coscienza di ritrovarmi al mio posto, di dare il meglio di me, e di compiere opera politica, di politica in senso lato: opera di studioso e di cittadino insieme, così da non arrossire del tutto, come più volte m’era accaduto in passato, innanzi a uomini politici e cittadini socialmente operosi.
B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, 1918.
Il valore politico-civile che la sua rivista ricoprì lungo tutta la prima metà del Novecento non si intimorì nemmeno in occasione delle guerre mondiali, ma anzi, al contrario, esso si invigorì. Attraverso rassegne storico-letterarie, recensioni delle recenti pubblicazioni internazionali, Croce da un lato mantenne vivo il dialogo culturale europeo persino in quegli anni della storia d’Europa che facevano della chiusura e della fomentazione all’odio i loro valori fondamentali, mentre dall’altro continuò a rievocare, tramite la storia, i valori portanti dell’Italia e dell’Europa. Benedetto Croce assolse il proprio dovere al di là degli eventi folli e tragici che colpirono l’Europa tanto materialmente quanto spiritualmente: più si allargava la tragedia europea, più si accentuavano le sue lezioni di devozione al lavoro, al metodo, alla morale, alla responsabilità civile e alla verità.
E la poesia? La poesia, e più in generale l’arte, era per Croce l’espressione più alta dell’umanità e per questo porta di accesso prediletta all’educazione del genere umano. In questo senso, essa svolgeva di per sé, per sua stessa natura, un compito civile. In occasione del sesto centenario della morte di Dante, Croce, allora Ministro della cultura nel governo Giolitti, pronunciò un discorso davanti alle Camicie nere, a Mussolini, e a tutti coloro che, di lì a poco, avrebbero fatto sprofondare l’Italia e l’Europa nel baratro politico, morale e civile dei totalitarismi. Parole che, se fossero state ascoltate, sarebbero state decisive nell’avvenire:
La poesia è un elemento necessario della vita umana, perché è necessità spirituale metterci di volta in volta di sopra delle lotte pratiche, o dal dominio del pensiero logico e tornare a rinfrescarci nella visione immediata ingenua del mondo, che ci è data solo dalla poesia. Come filosofo, so che non c’è nel mondo altra concordia che quella discorde; e, come uomo, fuori dai miei studi, sono anch’io un uomo di parte e ho assegnato il mio posto di combattimento. Ma, con pari saldezza di convinzione, io vi dico che nella poesia noi ci risentiamo veramente uomini e fratelli, e divisi come pur siamo dalle tendenze politiche e sociali, cozzanti tra noi violentemente, ci riuniamo in essa come in un tempio e riacquistiamo coscienza che, volendo in apparenza cose diverse ed opposte, in sostanza tutti sentiamo le stesse cose, vogliamo tutti lo stesso, noi creature mortali, e tutti lavoriamo allo stesso fine.
B. Croce, Il sesto centenario dantesco e il carattere della poesia, 1921.
Engagée?
Moby Dick 14.09.2024, 10:00
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