«Il sonno della ragione genera mostri»: quante volte abbiamo sentito o letto questa frase breve e incisiva, sovente usata per denunciare le brutture e storture del mondo. A concepirla fu Francisco Goya, che la scrisse, a mo’ di titolo e di monito, su una piccola acquaforte del 1797. Parte di una splendida serie di ottanta incisioni chiamata Los Caprichos (Capricci), l’opera raffigura un uomo dormiente circondato da creature inquietanti. «La fantasia senza la ragione genera mostri impossibili; insieme alla ragione, invece, è madre delle arti e origine delle sue meraviglie» spiegò il grande pittore spagnolo. Misteriosa ed emblematica, questa incisione non solo testimonia la volontà di Goya di raffigurare le contraddizioni e assurdità del suo tempo, ma esemplifica anche perfettamente la sua parabola artistica, che ci appare oggi come una magnifica sintesi di fantasia e ragione.
«Goya è sempre un artista grande e spesso spaventoso. All’allegria, alla giovialità, alla satira spagnola degli anni di Cervantes, egli unisce uno spirito assai più moderno o se non altro molto più perseguito nei tempi moderni, l’amore dell’inafferrabile, il sentimento dei contrasti violenti, dei terrori della natura» scriveva Baudelaire nel 1857 a proposito dei Caprichos. Non possiamo che convenire con il poeta: Goya fu tra i primi artisti a condurre la pittura verso la modernità, e a lasciarsi alle spalle gli orpelli accademici. «Non trovo mezzo più efficace per far progredire le Arti, né credo ce ne siano altri, che premiare e proteggere coloro che eccellono in esse […] e lasciar correre in piena libertà il genio dei discepoli che desiderano impararle, senza opprimerlo e senza distorcere l’inclinazione che essi manifestano verso questo o quello stile pittorico» dichiarò il Maestro aragonese a proposito dell’insegnamento delle belle arti. E ancora: «Non ci sono regole in pittura […] l’obbligo servile di far studiare o seguire a tutti la stessa strada è un grande impedimento per i giovani che professano quest’arte difficilissima, che più di ogni altra si avvicina al divino».
Far “correre in piena libertà” la propria immaginazione e il proprio talento fu, difatti, la grande conquista di Francisco Goya nel corso della sua mirabile carriera. Svoltosi a cavallo tra fine Settecento e inizio Ottocento, epoca di grandi rivoluzioni e profondi cambiamenti, il percorso pittorico di Goya è visto unanimemente come una graduale trasmigrazione dalla luce al buio: dai dipinti luminosi dei primi tempi alle pinturas nigras della vecchiaia, caratterizzate da toni cupi e tenebrosi. Una trasmigrazione, va aggiunto, che coincide con una crescente libertà di esecuzione ed espressione. Tale evoluzione è ben evidenziata nella bellissima mostra allestita a Palazzo Reale a Milano fino al 3 marzo 2024, “Goya. La ribellione della ragione”, dove un’ampia selezione di dipinti, incisioni e matrici in rame recentemente restaurate permette di ammirare il genio di Goya in tutte le sue sfaccettature ‒ dai grandi lavori su commissione alle opere più intime ‒ e soprattutto di apprezzare il carattere innovatore e, talora, enigmatico della sua arte.
Goya
La ribellione della ragione
Francisco José de Goya y Lucientes nasce nel 1746 a Fuendetodos, un piccolo villaggio nei pressi di Saragozza. Suo padre è un maestro doratore di origini contadine, mentre la madre appartiene alla piccola nobiltà aragonese. Ultimo di tre fratelli, Goya riceve un’educazione di base e a quattordici anni entra nella bottega del pittore José Luzán y Martínez, dove apprende in particolare la tecnica del disegno. Un paio d’anni più tardi, Goya realizza la sua prima opera su commissione: la decorazione di un reliquiario per una chiesa del suo paese natale, purtroppo andato distrutto durante la guerra civile spagnola. Nel 1763 Goya si trasferisce a Madrid, dove cerca per ben due volte di ottenere una borsa di studio per frequentare la prestigiosa Real Académia de Bellas Artes de San Fernando, senza però alcun successo. Nel frattempo, fa l’apprendista presso il pittore di corte Francisco Bayeu. Convinto che un viaggio in Italia possa giovare alla sua formazione, nel 1770 Goya parte per Roma, dove soggiorna per circa un anno e da cui si sposta per visitare altre città d’interesse come Venezia, Genova, Parma, Piacenza, Modena e Pavia. Il viaggio nel bel paese e gli anni immediatamente successivi al suo ritorno in Spagna sono descritti in modo particolareggiato dall’artista nel cosiddetto Cuaderno italiano, un taccuino ricco di appunti e disegni, oggi conservato al Museo del Prado. Attraverso questi appunti, scopriamo che Goya ammira dal vivo, restandone molto colpito, le opere di Raffaello, Veronese, Correggio, Bernini, Guercino, Piranesi e Rubens, solo per citarne alcuni. L’esperienza in Italia si rivela importantissima per il giovane Goya, che una volta rientrato nella sua terra natale non tarda a ricevere i suoi primi incarichi, come la decorazione della volta del coro della Vergine nella Basilica del Pilar a Saragozza.
Nel 1773, l’artista sposa Josefa Bayeu, sorella del citato Francisco Bayeu, e pochi anni dopo si stabilisce definitivamente a Madrid, dove grazie alla influente posizione del cognato ottiene importanti commissioni, prima fra tutte la realizzazione di una serie di cartoni preparatori per l’arazzeria reale. Quello che va dal 1780 al 1790 è un periodo fruttuoso e decisivo per il pittore, che vede crescere il suo prestigio grazie a una sequenza di nomine importanti: prima è membro della Real Académia de San Fernando, poi ne diventa vicedirettore di pittura, quindi viene nominato “pintor del rey”, ossia pittore di re Carlo III, e infine, con l’incoronazione di Carlo IV, è insignito del titolo di “primo pittore di camera”, con il compito di realizzare una serie ritratti reali.
Un’ascesa eccezionale per Goya che, soddisfatto per la posizione raggiunta, scrive all’amico Martín Zapater: «Chi desidera qualcosa da me mi cerca, e io mi faccio desiderare di più, e se non è un personaggio elevato socialmente, o con raccomandazioni di qualche amico, non farò niente per nessuno». È la sua rivalsa verso chi non aveva creduto in lui. Risalgono a questo periodo opere come l’imponente Ritratto della famiglia dell’infante don Luis di Borbone (oggi conservato presso la Fondazione Magnani-Rocca di Mamiano di Traversetolo, Parma) e I duchi di Osuna con i figli, pervaso di un’eleganza aristocratica e delicata. Animatrice di un vivace salotto letterario, la coppia ducale è tra i committenti più affezionati a Goya, che nel giro di pochi anni acquista fama di straordinario ritrattista in virtù della sua maestria nell’esaltare la bellezza e la ricchezza, il ruolo e il prestigio degli effigiati: da Maria Luisa di Parma, tutta lustrini e crinoline, all’algida Marchesa de Pontejos, con vaporosa parrucca argentata, dall’altero José Moñino conte di Floridablanca a María Teresa Cayetana de Silva, duchessa di Alba, con cui pare Goya ebbe una relazione clandestina. Il vertice nel campo della ritrattistica è raggiunto dal pittore nel 1800, con il maestoso ritratto di gruppo La famiglia di Carlo IV, un’opera sorprendente per l’accuratezza e il naturalismo con cui Goya raffigura le tredici figure, traendo ispirazione dal celebre Las Meninas di Velázquez, artista che, insieme a Rembrandt, ammira in special modo.
Parallelamente agli onori e i successi tra l’aristocrazia madrilena, però, Goya si trova ad affrontare gravi problemi di salute, che lo renderanno irrimediabilmente sordo, e al contempo inizia a covare un desiderio di libertà e di affrancamento dai vincoli della committenza. Così, nel 1793, durante una convalescenza, realizza una serie di piccoli dipinti, come una sorta di terapia. «Per tenere occupata la mia immaginazione tormentata dal pensiero delle mie sofferenze […] per poter fare osservazioni che normalmente non trovano posto nei lavori commissionati, dove non si possono liberare il capriccio e l’invenzione». È l’inizio di un nuovo corso per la pittura di Goya, che accanto ai penetranti ritratti di nobili, intellettuali, militari, amici e familiari, volge il suo estro pittorico anche verso territori meno sicuri e confortevoli, dando vita a opere oscure, visionarie e oniriche, affollate di creature da incubo e scene crudeli. Pensiamo ai sopraccitati Caprichos, con cui il pittore mette in rilievo vizi, aberrazioni e contraddizioni della società spagnola, ma anche a lavori sarcastici e inquietanti come Il fantoccio, Esorcismo o Il grande caprone.
Ad acuire lo spirito critico e il pessimismo del pittore sono, all’inizio dell’Ottocento, la politica di occupazione militare napoleonica e l’invasione francese, che scatenano in Spagna violenti tumulti. Il popolo spagnolo intraprende la “guerra de Independencia”, che si conclude nel 1813 con la cacciata delle truppe francesi e il ripristino della monarchia spagnola. Ma il conflitto lascia un segno drammatico e profondo, che si riflette nell’arte di Goya: basti pensare al plumbeo e catastrofico Colosso, all’intenso e concitato 3 maggio 1808, e soprattutto al magnifico ciclo di incisioni Los desastres de la guerra. In questi anni carichi di angoscia e disillusione, cresce in Goya anche il sentimento di pietas verso gli emarginati, i poveri, i malati mentali, che si traduce in opere tragiche come Interno di manicomio e Il tribunale dell’inquisizione. È in questi lavori della maturità che il linguaggio pittorico di Goya prende definitivamente le distanze da qualsiasi convenzione o modello artistico preesistente.
Nel 1819, il pittore, anziano e stanco, si ritira dalla vita pubblica e lascia Madrid per trasferirsi in una casa di campagna, nota come la Quinta del sordo. È qui che Goya realizza le affascinanti Pitture nere, una serie di dipinti murali (poi staccati e conservati al Prado) raffiguranti scene allegoriche ed enigmatiche. Follia, magia, distruzione, morte, ferocia, assurdità si intrecciano senza soluzione di continuità in queste pitture, dove la pennellata densa, veloce e vigorosa mescola tinte chiare ad altre scure come la pece. Negli ultimi anni della sua vita, il pittore si sposta frequentemente tra Bordeaux e Madrid, continuando a sperimentare nuove tecniche pittoriche e a eseguire ritratti e disegni.
«Prefigurò tutta l’arte moderna» disse di Goya lo scrittore francese André Malraux. Certamente, la sua arte traboccante di visioni, incubi e tormenti fu di assoluta ispirazione per molti artisti successivi, dagli espressionisti ai surrealisti, e tutt’oggi custodisce una modernità e una forza espressiva senza precedenti.
Goya, le ombre della ragione
Voci dipinte 09.01.2022, 10:35
Contenuto audio