Ora sono i membri della Giuria internazionale a dover decidere come distribuire gli Orsi di questa 75ma Berlinale. Che si è chiusa, dopo il gelo e la neve, con 48 ore di sciopero dei mezzi pubblici, che ha reso alquanto difficoltoso per il pubblico (e gli accreditati) accedere alle sale.
Ma una volta seduti, la magia del cinema ha preso il sopravvento. In particolare guardando “Yunan” del regista ucraino di origine siriano-palestinese Ameer Fakher Eldin, secondo capitolo della trilogia “Homeland” dopo “Al Garib” (The Stranger del 2021). Girato in parte in Puglia ma soprattutto nella scenografica halligen (isola sabbiosa) di Langeneß, nel mare del nord, è la storia di un autore siriano fuggito in Germania, Munir (Georges Khabbaz) che sprofondato in una crisi senza apparente via d’uscita, decide di suicidarsi su una remota isola di sabbia nel Mare del Nord. Ma l’incontro con una scontrosa vedova che gli affitta una camera Valeska (la sempre straordinaria Hanna Schygulla), suo figlio e una piccola comunità locale, riaccende in lui la scintilla.
Il secondo film di Frédéric Hambalek, “Was Marielle Weiß”, è decisamente meno appagante e molto più leggero. Se in “What Women Want” Mel Gibson riusciva a leggere nel pensiero delle donne che lo circondavano, qui una ragazzina preadolescente, dopo un trauma, inizia a sentire distintamente tutto ciò che i suoi genitori dicono ed a sapere cosa fanno, anche mentre sono lontani da casa. Anzi, soprattutto: perché in casa tutto sembra perfetto e funzionale, mentre lontano dalle mura domestiche, la madre Julia flirta pesantemente con un collega mentre papà Tobias si inventa successi professionali inesistenti. Le bugie svelate travolgono la famiglia: se il senso era quello di dirci che l’inganno è l’unico modo per sfuggire alle delusioni e che anche all’interno di una famiglia è accettabile, il film nonostante qualche scampolo divertente, non convince.
Il secondo film cinese della competizione, “Xiang Fei De Nv Hai” (Girls on wire) di Vivian Qu è una storia al femminile con protagoniste due cugine, Tian Tian e Fang Di, cresciute insieme ma poi allontanatesi. Quando Tian Tian, mamma single, uccide per legittima difesa uno spacciatore, va alla ricerca Fang Di, che lavora come stunt-woman: qui dovranno superare le divergenze che le hanno allontanate e soprattutto eliminare dall’equazione delle loro vite un gruppo di gangster che le inseguono per questioni di debiti. In sottotraccia il film, sospeso tra thriller poliziesco e dramma familiare, è godibile nonostante i confusi flashback, ed è anche un atto d’amore per il cinema delle maestranze, quelle costrette a offrire il proprio corpo per le riprese più difficili (e in condizioni estreme) alle “star” che invece straguadagnano e aumentano la loro gloria.
Molto divisivo si è rivelato “If I Had Legs I’d Kick You“ che ha letteralmente aperto in due la critica (già al Sundance). Il film di Mary Bronstein, con una peraltro convincente Rose Byrne come protagonista assoluta, nei panni di Linda, psicoterapeuta, sposata e con una bambina piccola affetta da una misteriosa malattia che richiede cure e controllo costanti. Col marito assente per lavoro, si trova costretta a lasciare precipitosamente casa perché un’infiltrazione d’acqua ha letteralmente fatto crollare il soffitto di una stanza. In un crescendo di stress, incomprensioni e difficoltà logistiche, lo spettatore viene risucchiato nel mondo confuso e claustrofobico della protagonista.
Una bella occasione mancata è anche “Drømmer” (Dreams) di Johan Haugerud, che con questo film chiude una trilogia iniziata con “Sex” a Berlino lo scorso anno, proseguita con “Love” a Venezia e ora di nuovo qui, stavolta in concorso. Johanne 17 anni, si innamora della sua insegnante Johanna. Se il rapporto tra le due, oltre alle lezioni di ferro e uncinetto, arrivi a compimento, non lo sappiamo, ma di questa storia Johanne annota tutti i dettagli, anche quelli più intimi, che finiscono nelle mani di nonna e mamma. Che dopo la rivelazione shock, iniziano a vedere nello scritto un potenziale successo. La ricerca dell’amore che toglie il fiato resta al centro di questo film e della intera trilogia, ma a dominare è soprattutto una sensazione di grande solitudine.
Un uomo da palmarés è indubbiamente Radu Jude, Orso d’oro nel 2021 con “Sesso sfortunato o follie porno” e Premio speciale della giuria a Locarno nel 2023 con “Do Not Expect Too Much from the End of the World”. Alla Berlinale ha portato il suo ultimo lavoro “Kontinental ’25” girato tutto con gli smartphone. Ambientato nel capoluogo della Transilvania, Cluj, è incentrato sul senso di colpa di Orsolya (Eszter Tompa), ufficiale giudiziario chiamato ad eseguire lo sfratto di un vagabondo stabilitosi in una cantina. L’uomo chiede alcuni minuti per preparare i bagagli, ma in realtà si uccide impiccandosi ad un termosifone. Orsolya non si dà pace, rinuncia alla vacanza con la famiglia e cerca una via per superare il trauma. Forse non il film migliore di Radu Jude, ma di sicuro un lavoro interessante.
Dopo che per due anni consecutivi l’Orso d’oro è andato ad un documentario (2023 “Sur l’Adamant” 2024 “Dahomey”) un solo film non di fiction è in gara quest’anno. Si tratta di “Strichka chasu“ (Time stamp) della regista ucraina Kateryna Gornostai, che racconta l’ennesimo spaccato di questa guerra ormai in corso da tre anni, focalizzandosi sul mondo della scuola. Con immagini girate tra la metà del 2023 e i primi mesi del 2024, si spazia tra diverse città, a differente distanza tra il fronte e i confini con Russia e Bielorussia, per rappresentare la situazione quotidiana di chi sta aspettando la fine dei lavori di ricostruzione dell’istituto, di chi deve interrompere le lezioni per gli allarmi aerei, di chi soffre guardando le pareti dove ancora sono appesi i ricordi di un tempo senza conflitto e immagini di persone ormai scomparse. Bambini e i ragazzi di diverse età, che sperano nel futuro e che saranno le generazioni chiamate a ricostruire il Paese un domani e dopodomani.
Con “Geu jayeoni nege mworago hani“ (What does the nature say to you) torna in concorso Hong Sang-soo, abituato ai grandi festival ma soprattutto a mettere nella valigia per il ritorno a casa parecchi riconoscimenti. Qui a Berlino, in particolare, il premio per la miglior regia nel 2020 con “The Woman Who Ran” e nelle ultime due partecipazioni, per due volte il Gran Premio della Giuria (ultimo lo scorso anno con “A Traveler’s Needs” interpretato da Isabelle Huppert). Le sue storie, sempre minimaliste girate in apparente bassa definizione (quasi sfocato) ci portano ad incontrare Donghwa, un poeta 35 enne, figlio di un avvocato, che riaccompagna a casa la sua ragazza Junhee. Qui si imbatte nel papà di lei e il tutto si trasforma in una giornata “in famiglia” che tra chiacchiere e primi passi di una conoscenza da approfondire, portano alla cena. Alcolica... e qui Donghwa non riesce a mantenere il controllo, spiazzando la famiglia di Junhee che lo stavano immaginando vivere al fianco della figlia.
Per ultimo abbiamo lasciato volutamente “La cache” di Lionel Baier, che ha piacevolmente sorpreso pubblico e critica. Ispirato ad un frammento del difficile romanzo omonimo di Christophe Boltanski, vincitore del Prix Femina, si incentra sull’eccentrica e popolata famiglia proprio di Christophe (che è l’io narrante del romanzo e qui nel film il piccolo ma eccezionale protagonista che ha il volto paffutello e spiazzante di Ethan Chimienti) nel maggio del 1968 in una Parigi in cui imperversano le proteste che si diffonderanno in tutta Europa, mentre il Generale De Gaulle giunge all’epilogo della sua parabola politica. Tra una bisnonna (originaria di Odessa), nonni, zii ed un manipolo di artisti, la quotidianità è spensierata e variopinta. Il tutto con una necessaria quanto sorprendente riflessione sulla storia familiare. Baier allestisce un omaggio alla commedia francese (e italiana) divertente e divertita. Un film che appaga lo spettatore.
Festival internazionale del cinema di Berlino
Tra le righe 21.02.2025, 14:00
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