Riletture

Bonnie and Clyde, così Arthur Penn ha dirottato il cinema americano

La (vera) storia di un uomo e una donna uniti da una “e” di sangue, d’amore e di morte

  • 19 agosto, 08:41
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Di: Ale de Bon

Bonnie and Clyde. Nonostante la traduzione italiana - Gangster Story - abbia provato ad aggiungergli qualcosa di inutile, togliendogli qualcosa di fondamentale, il film di Arthur Penn che nel 1967 raccontò la storia della più famosa coppia di criminali degli Stati Uniti è precisamente quello: Bonnie e Clyde. Un uomo e una donna uniti da una “e”: di sangue, d’amore e di morte. Il film nacque dalle penne incrociate di Robert Brenton e David Newman; Brenton, travolto dal vento della Nouvelle Vague che soffiava dall’Europa, voleva raccontare la storia dei due ventenni diabolici che trent’anni prima avevano seminato di “morte innamorata” il sud degli Stati Uniti. Con Jules e Jim negli occhi scrisse la sceneggiatura a quattro mani con Newman e andò a bussare direttamente alla porta di quella Nouvelle Vague, proponendola a lui, François Truffaut. Il maestro però, impegnato con altre pagine, quelle di Fahrenheit 451, declinò l’invito e lo script tornò in America. Decisiva fu la scrivania di Warren Beatty, dove lo script finì di lì a poco. Beatty se ne innamorò, lo produsse, si piacque immaginandosi Clyde e disse ai due sceneggiatori che quelle pagine dovevano rimanere a Hollywood; bisognava proporle a Arthur Penn, che due anni prima lo aveva diretto in Mickey One. E Penn, dopo qualche dubbio iniziale, accettò. Le giovani anime dannate di Bonnie e Clyde avevano trovato un sacerdote laico e quella pagine hollywoodiane investite dal vento francese, si sparpagliarono disordinate e rivoluzionarie “dans la rue”, in Louisiana.

Clyde: “Se vieni con me, non avrai un minuto di pace”.
Bonnie: “Se è una promessa, ci sto”.

Tra le mani e gli occhi di Arthur Penn Bonnie and Clyde ha smesso velocemente di essere un film “scritto” per diventare un film diretto, fotografato e montato. E interpretato, certo, ma a loro arriveremo dopo. Bonnie and Clyde è una magia riuscita grazie all’uso perfetto dei suoi trucchi: la messa in quadro, i movimenti di macchina, gli stacchi, la sequenza. Ma agli occhi del pubblico e della critica è una magia mai vista prima, rivoluzionaria, Arthur Penn è il David Copperfield capace di far sparire la Statua della Libertà. E al posto della signora di New York ecco loro, Bonnie e Clyde, che tornano nelle vite degli (spettatori) americani trent’anni dopo la loro razzia di banche e vite. Tornano dalla Louisiana, certo, ma pure dal Vietnam. La loro storia, raccontata da Benton, Newman e Penn, è una storia spietata e dolorosa, in cui si fatica a tracciare le direttrici di amore e odio, sentimenti che sibilano da una parte all’altra dello schermo; o verso il pubblico. In pochi secondi il film passa da una buffa manovra di parcheggio a un proiettile in piena fronte. E là resta, sangue e vetro impastati sullo schermo, in primissimo piano. Perché la violenza è piena, e allo stesso tempo pericolosamente leggera. Per cento minuti sbruffone, il film si pianta sullo sterno con una tristezza profonda. La tristezza di una risata mozzata da una brutta notizia, di un racconto a stelle e strisce che non gira più, che scopre l’asta arrugginita e sbiadisce nel blu e nel rosso. Nel 1967 si muore, e si muore male. Lo si sa e lo si vede.

Bonnie and Clyde è un film chiave nella storia del cinema americano. Centoundici minuti che segnano un ante e un post. Lo fa insieme ad altre pietre miliari come Il laureato di Mike Nichols (The Graduate) e Easy Rider di Dennis Hopper (1969), ma la sterzata più decisa, con derapata, è la sua. Poi, sarà New Hollywood. Lo decide la fotografia Burnett Guffey, celebrata con il Premio Oscar, lo chiede la regia di Penn, che si mette al servizio di un altro Paese, con gli stessi confini ma un altro “sentire”, e lo scrive il montaggio di Dede Allen, che costruisce uno dei finali più coinvolgenti, disturbanti e di frattura della storia del cinema. I tre minuti che assembla per raccontare quel 23 maggio 1934 (e forse ricordare anche il 22 novembre 1963), il giorno in cui amore e crimine furono crivellati da una grandinata di piombo, sono un brano di Bowie, una fotografia di La Chapelle, uno squalo di Hirst. A mitragliare sono gli uomini di Frank Hamer tra le frasche, ma pure Dede in sala di montaggio. Dai cespugli alle lamiere dalla Ford V8 Flathead, dai fucili a pompa agli uccelli spaventati, dalla faccia del vecchio di Henry Methvin al suo furgone tutto è protagonista. Per una manciata di fotogrammi, ma lo è. E lo sono loro, Bonnie e Clyde, lo è il loro scambio di sguardi che increduli e ingenui si dicono muti “allora è finita”, tornando per un attimo, l’ultimo, ventenni. Eccola la tristezza, eccoli i sentimenti che perdono aderenza con la morale, ecco la violenza (esagerata) di un Paese in crisi che scarica la sua frustrazione in 130 proiettili (contati) su due corpi.

Clyde: “Io sono uno di cui si ricorderanno per sempre”.

Bonnie and Clyde è Warren Beatty e Faye Dunaway. Sì, è anche Gene Hackmann, Michael J. Pollard e Estelle Parsons, che si porta a casa un Premio Oscar al debutto, ma se ne esistesse uno alla Miglior coppia protagonista, se lo sarebbero portato a casa loro, lui e lei. Lei è lei per la prima volta, all’esordio e già indimenticabile; appuntita, glaciale, furba e disinvolta, perfetto controcanto americano alla Jean Seberg parigina, volendo restare sui manifesti rivoluzionari. Lui è Warren Beatty, bello da levargli tutto e tonto da abbottonargli la camicia. La scena del primo incontro, il pomeriggio della scintilla, è uno spaccato tardo-adolescenziale che vale una storia d’amore; una di quelle pomiciate senza senso attese un’estate intera, un bollore di doppi sensi e desideri, maschi in ritardo e femmine svelte, pistole e Coca-Cola. È una generazione che ha perso l’orientamento, il senso di marcia o forse - meglio - il senso della marcia. Perché farlo? Per chi? Ti va di giocare ai banditi? Si, andiamo.

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