Cinema

Dancing for the devil, docuserie su una setta legata a TikTok

Una società di management e una chiesa, abusi psicologici e sessuali su ballerine: Netflix la racconta e il processo è ancora in corso

  • 22 giugno, 12:52
  • 27 giugno, 11:34
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"Dancing for the devil"

  • Netflix
Di: Valentina Mira

La storia che tratta la docuserie Dancing for the devil ha tutti gli elementi per essere al primo posto dei prodotti che interessano agli spettatori di Netflix: e in effetti lo è.

Si racconta la 7M, una società di management che arruola ballerini e ballerine da anni, dà loro una casa, una carriera di successo, e li fa finire in una setta. Il culto della personalità (e del portafoglio, visto che con parecchi stratagemmi chi balla non vede gran parte dei soldi che guadagna) è quello di Robert Shinn. La cosa particolare del documentario è che - si apprende solo alla fine - il processo contro la 7M è ancora in corso. Netflix s’inserisce con questo prodotto in una vicenda giudiziaria la cui prossima udienza è prevista per il 2025.

Alla base del successo di Dancing for the devil c’è la precisione con cui racconta il modo in cui si finisce in una setta. La manipolazione ha tantissime facce, ma un unico schema con poche variabili. Intanto, cosa cercavano i ballerini coinvolti? Uno di quelli che sono scappati da Shinn ci dice lucidamente che l’ambiente della danza e il mondo dello spettacolo in genere sono tossici. Che ti sfruttano, che è complicato emergere in una competizione serrata e a tratti sleale, per cui la 7M gli sembrava la salvezza. La fragilità delle condizioni di partenza delle persone manipolate è dunque un primo elemento. Che l’alternativa sia più visibilmente tossica è un altro. Non finisci su una zattera rotta se non sei in un mare in tempesta. Con Shinn i ballerini avevano trovato qualcuno che li pagava, in un ambiente in cui è difficile vedere soldi e le passioni sono svilite e sfruttate. Il capitalismo.

Il ragazzo che racconta - un ballerino che oggi lavora con star del calibro di Beyoncé - ci dice che quando è finito nel progetto della 7M lui dormiva in una macchina.

Le cose iniziano innocue e con un love bombing serrato: di cosa hai bisogno? Ti viene proposto proprio quello. Comunità, affetto, soldi, un risveglio spirituale che viene visto come positivo e non come una red flag. Cosa c’entra la fede col lavoro?

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"Dancing for the Devil"

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Arriva poi l’allontanamento dalla famiglia, dai propri cari. Con alcuni Shinn ha gioco facile: il mondo è pieno di famiglie disfunzionali, piene di rancori sopiti, rapporti invischianti che non ti permettono l’emancipazione. Il problema è che la setta è foriera di rapporti ancora più invischianti, è una famiglia ancora più disfunzionale. Non si sostituisce una gabbia con un’altra gabbia. Ma loro non lo sanno ancora, e la manipolazione continua.

Forse l’elemento narrativo più interessante e anche perturbante del documentario (3 episodi da meno di un’ora l’uno) è la famiglia che segue dall’inizio alla fine, cioè quella da cui è partita la denuncia social. Genitori ballerini, crescono due gemelle ballerine anch’esse. Una delle due conosce un altro ballerino, insieme entrano alla 7M. La ragazza sparisce. In compenso, sui social è sempre più attiva e all’apparenza ha sempre più successo. Lei, Miranda, a oggi rifiuta di avere rapporti con la famiglia d’origine, e ha anche negato, qualche giorno fa, le accuse di Netflix. In effetti, un documentario del genere nell’attesa di una sentenza sembra un azzardo giuridico, ma il colosso delle piattaforme sa il fatto suo (inoltre, il sistema processuale statunitense è molto più aperto di altri all’interferenza spettacolarizzante dei media).

Il dramma umano della gemella a cui Miranda ha tolto la parola è palpabile: racconta di una parte di sé bloccata, come se metà del suo cuore fosse semplicemente sparito, andato via con sua sorella. La verità è che si trova davanti all’elaborazione di un lutto in assenza di morte. Un caso di ghosting familiare, senza che ci sia stato un litigio tra le due, delle avvisaglie di qualche tipo. E nessun membro della sua famiglia ha intenzione di lasciare andare Miranda, soprattutto dopo aver scoperto la manipolazione psicologica, gli abusi economici e sessuali di cui è accusato il capo della setta, Shinn.

Dal canto suo, lui è recidivo (aveva già fondato una setta, solo che non era così fruttuosa finanziariamente e non era legata al mondo della danza). Dichiara che “God never lost a fight”, Dio non ha mai perso una battaglia. Evidentemente, parla di sé.

È anche questo un elemento ricorrente, l’identificazione con Dio, la sicumera di mostrarsi come tramite di quest’ultimo, come salvatore di pecorelle smarrite. Il controllo inizia dopo. E più il mondo fuori indaga, più il controllo diventa stringente. Usa il vittimismo da accerchiamento come arma manipolatoria sulle persone che tiene in scacco.

Un classico degli ambienti pseudo-lavorativi di questo tipo è la firma di un documento che impone il silenzio su cosa succede lì dentro: capita in molti mestieri, la forma è quella di un banale accordo sulla privacy. Ma l’obiettivo è mettere a tacere la gente sugli abusi.

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"Dancing for the Devil"

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Shinn si racconta come Dio, così c’è anche la guarigione miracolosa. Che sia effetto placebo o scienza (vengono curati dei dolori persistenti con alcol e acqua di mare, dolori che spariscono durante un battesimo scenografico, nell’oceano), una donna si convince che il merito sia di lui. Va detto che è proprio Shinn che s’impegna a farcela credere. Uno dei motivi per cui questo tipo di individuo è così bravo a manipolare le persone è che è convinto lui stesso di ciò che dice.

Per chi è fuori dalla setta, per chi è lucido, è evidente che lo scopo del capo della 7M è rubare più soldi possibile. A tutti e tutte.

Uno dei motivi della fascinazione di questa docuserie è che pone, solo esistendo, un dilemma etico sulle tecnologie: chi è il definitivo salvatore per guadagno? Netflix è poi così tanto diversa da Shinn? Di sicuro Netflix è autoironica, ottima difesa etica e strategia di marketing, perché in fondo ce lo aveva detto in una delle ultime puntate di Black Mirror (“Loch Henry”, stagione 6).

Tanto si potrebbe ancora dire su Dancing for the devil. Per esempio, che mette in luce come agiscono le personalità come Shinn quando vengono messe con le spalle al muro: a quel punto, da divinità, si appellano al fatto che sono “anche umani”, dunque sbagliano. Contrizione, finta umiltà, ma al contempo rigettano le accuse; quando delle donne gli dicono che le ha molestate, lui da una parte fa il pentito, dall’altra non chiede scusa per le molestie, ma per essere stato sedotto.

Un altro elemento interessante è il ritratto perfetto della sindrome da abuso narcisistico che presenta chi è uscito dalla setta dopo esserci stato a lungo. Quando una persona si accorge di essere stata manipolata e abusata così a fondo da confondere la linea del consenso e da non capacitarsi del tradimento di sé stessa nei confronti di sé stessa, dell’incapacità non solo di liberarsi ma soprattuto di percepire che attorno c’era una gabbia da cui liberarsi, la crisi è enorme. C’è vergogna, ci possono essere anche - come nel caso raccontato - fantasie di suicidio. Per fortuna, rispetto ad altri prodotti, Netflix stavolta ci risparmia il pericolo dell’effetto Werther.

«I lost the best years of my life so that Robert could enjoy his», («Ho perso i migliori anni della mia vita perché Robert potesse godersi i suoi»). È la frase di uno dei liberati dalla setta, e anche in questo caso è paradigmatica. La consapevolezza del tempo perso è un altro grande problema di chi esce da situazioni del genere. Perché quel tempo non era tuo, hai dato in subappalto il cervello, ma te ne accorgi dopo. Il modo di uscire da pensieri così disfunzionali è ricordarsi che potevi morirci dentro. Che il tempo è tuo ora. E lo vivrai più consapevolmente di come avresti fatto se non fossi finito in quella situazione.

C’è anche un altro tema complesso: come evitare di buttare il bambino con l’acqua sporca? E che cosa fare quando “il bambino” è la danza, la tua più grande passione, che ora il tuo cuore lega indissolubilmente a un trauma gigantesco, a dei ricordi dolorosi? La docuserie ci dice che si può.

Per molti di loro, infatti, c’è un lieto fine.
Tutti, tranne la gemella di Miranda. Che deve elaborare un lutto in vita e (forse) accettare che sua sorella non le parlerà più, anche se il motivo è che è finita in una setta. Perché gli adulti hanno il diritto di fare degli errori e perfino di morirci dentro, soprattutto se si ostinano a vivere in una bolla a forma di negazione. Il documentario per questa sorella (Melanie Wilking, tra l’altro anche un’ottima ballerina) sembra il gesto disperato, forse l’ultimo, che fa verso Miranda. E, in caso fosse un errore: non solo la gemella che sparisce nella setta ha il diritto di farlo, ma anche lei ha il diritto di provare a comunicarci.
In ogni caso, sembra suggerire Netflix, meglio gli errori fatti cercando di costruire ponti di quelli fatti alzando muri invalicabili. Che restano, tuttavia, un diritto. Abusare della gente no: vedremo come procederà il processo per stupro nei confronti di Robert Shinn.

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