Cinema

Eric, la nuova serie Netflix con Benedict Cumberbatch

Abusi in divisa, un rapporto padre-figlio che riesce a spezzare il ciclo dell’incomunicabilità, pupazzi e dipendenze sono gli ingredienti di una storia che ci serviva

  • 18 giugno, 13:57
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Benedict Cumberbatch e Ivan Howe in "Eric"

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Di: Valentina Mira

Sei episodi, poco meno di un’ora, un Benedict Cumberbatch irriconoscibile e in stato di grazia a interpretare un personaggio complesso, Vincent. Lui è il creatore di uno show per bambini di enorme successo, disegna e costruisce in team dei pupazzi, fa le loro voci e le fa benissimo: è l’evoluzione adulta (più o meno) e professionale (anche in questo caso, più o meno) di un bambino che gioca con i pupazzetti. Fin dall’inizio Vincent sembra decisamente nello spettro dell’autismo, ma non è questo a giocare un ruolo nella sua incapacità di comunicare le emozioni rispetto a moglie, colleghi, e soprattutto al figlio.
Finché non sarà obbligato a farlo. Perché quest’ultimo sparisce.

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McKinley Belcher III in "Eric"

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Del bambino avevamo appreso dalla bocca della madre che: «Hai lo stesso talento di tuo padre». Come sempre succede, è il non verbale che parla più delle parole, e la signora piange mentre glielo dice. Le sue sono lacrime sì di commozione ma sembra anche tristezza, perché nessuna più di lei sa che non è facile amare uomini così. Allo stesso tempo, è drammaticamente semplice innamorarsene. Nonostante il piccolo disegni, inventi storie e pupazzi e dia loro voci e un’anima, esattamente come il padre, lo stesso talento non è sufficiente a comunicare con quest’ultimo.

“Eric” è una storia composita e perfettamente costruita: di dipendenza dall’alcol usato come fuga dalle emozioni; di polizia, di abusi in divisa; di discriminazione razziale e di classe, perché a un certo punto uscirà fuori che tutta l’attenzione mediatica riservata al bambino bianco figlio dell’uomo di successo non è stata riservata a un altro giovane, nero e appartenente alla classe proletaria. È una serie sulla salute mentale, che avevamo già visto legata ai puppets in chiave tragicomica anche in “The Boys” e nella serie correlata, “Gen V”, ma qui la citazione è per lo più estetica, perché la chiave è completamente diversa.

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Benedict Cumberbatch in "Eric"

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Soprattutto, però, “Eric” è incentrata sullo spezzare i cicli della mascolinità tossica. Cicli familiari, plurigenerazionali, difficili e dolorosi da rompere, come maledizioni (e non meno complesso è uscire dai loop che riguardano le donne e gli stereotipi materni da non ricalcare, solo che il femminismo ha fatto e continua a fare un lavoro immenso su questo, mentre mancava davvero la serie che affrontasse il versante maschile senza giustificazioni, senza vittimismo, senza auto-redenzione; con maturità). Qui nel mirino c’è l’incomunicabilità emotiva tra padre e figlio. Ci accorgiamo alla seconda puntata che Vincent segue pedissequamente l’esempio familiare, intanto per quanto riguarda la scelta della partner. Non cerca una donna che comunica con lui e con cui comunicare, cerca un’ancella, una persona di supporto e possibilmente in adorazione di lui, in postura protettiva, materna, di cura, per quest’uomo speciale e la sua arte speciale. Esattamente come il padre con la madre. Quando è costretto a tornare a trovarli - hanno proposto un grosso riscatto per chi troverà il bambino - Vincent va da sua madre e chiede di essere ascoltato; a quel punto lei lo mette a tacere e gli dice che il padre sta lavorando (in lontananza, si sente qualcuno che suona il piano). È qui che capiamo che il suo è solo uno schema che si ripete. E da spezzare, prima che ti spezzi. O dopo.

Ciò a cui assistiamo nel corso della serie è proprio questo: Vincent che si spezza. Che beve come un disperato, che segue un’intuizione che collima con la follia, che scende nella suburra cittadina dove, a differenza del protagonista di Memorie del sottosuolo di Dostoevskij, lui non vive. Nonostante i suoi disagi, Vincent nasce come un privilegiato. Ma quel privilegio lo abbandonerà per ritrovare suo figlio.

Il piano dell’uomo è dare vita nel suo show al pupazzo disegnato dal bambino, di cui il piccolo provava a parlargli quando lui non era disposto ad ascoltare. Lo vediamo abbandonare pian piano il suo essere un egoriferito, lo vediamo usare in modo struggente la sua arte, che è la stessa del piccolo, per comunicare con lui. È certo drammatico che utilizzi lo show per parlare con qualcun altro fagocitando un’idea di quel qualcun altro nella sua arte. È un gesto generoso, è un gesto egoista, è Crono che divora i suoi figli, ma lo fa a fin di bene. E lo fa a fin di bene perché Vincent - come dicevamo, con ogni probabilità nello spettro autistico - con gli altri sa comunicare autenticamente solo così. È un bambino che gioca a pupazzetti davanti a tutti.

Solo che ora deve crescere. È a questa crescita che assistiamo. Passa attraverso una mappa disegnata da un bambino, passa attraverso l’accoglienza dell’altro, passa attraverso una serie di tradimenti subiti da uno che sembra averli sempre agiti e ora si prende un po’ del karma che gli spetta; passa attraverso la ricerca, la comunicazione, la differenziazione dal padre con cui non parlava da anni ma di cui ancora inconsciamente cercava l’approvazione. Senza essersi mai domandato se lui, quell’uomo terribile, privilegiato e privo di empatia, a sua volta lo approvasse.

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"Eric"

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C’è la vita che fa la vita, e cioè che quando si disfa lo fa a effetto domino.
La vita che fa la vita vuol dire anche che nella serie c’è quel punticino luminoso dell’orizzonte su cui è necessario focalizzarsi, se si vuole arrivare salvi dall’altra parte di un mare in tempesta.
La cosa sicura è che la vita dall’altra parte è bella. Dall’altra parte dell’omertà che c’è negli abusi in divisa, dall’altra parte della mascolinità tossica, dall’altra parte. Per arrivarci dovrai smettere di ignorare il sotto: sotto alla metropolitana, dove vivono i senzatetto, nella pancia della città. Una pancia che ha delle cose da dire. E le dirà, con Heroin dei Velvet Underground come colonna sonora.
Una serie per chi sa di poter ricordare a qualcuno quanto lo ama tramite l’arte, e riesce a usarla come la formula magica che proprio l’arte sa essere. Per evocare mostri buoni, e talvolta farci anche a cazzotti.

In sintesi: uno splendido, struggente racconto del rapporto tra un padre e un figlio. Rapporto che non si limita a essere raccontato, ma risolto. Traccia una via. Non si limita a mettere in scena gli stereotipi di genere dal punto di vista dei danni che fanno anche agli uomini (“sono così perché mio padre era così”), ma tenta di fare un passo avanti, di spezzare davvero una catena. Ci riesce, e per questo e per una rappresentazione finalmente critica e accurata della polizia, merita assolutamente la visione.

George Lucas, genio ribelle

Charlot 16.06.2024, 14:35

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