Flow, il film d’animazione che ha trionfato ad Annecy e che ai Golden Globe ha messo in fila Pixar, Disney, Dreamworks, Universal e Amblin, è un film gatto. Silenzioso, agile, sveglio, veloce. Furbo. Un gatto nero che alla faccia della iella e con pochissime parole - anzi versi - ha zittito Gioia, Ansia, Tristezza, Disgusto, Paura e Invidia (Inside Out 2), Maui & Vaiana (Oceania 2), i senatori Wallace & Gromit (Wallace & Gromit - Le piume della vendetta) e pure il robot ambientalista campione d’incassi (Il robot selvaggio). E con un’ondata pari a quella che a inizio film spazza via foreste, case, prati e valli, ha letteralmente conquistato gli occhi dell’animazione.
Flow è un film oltre l’ambientalismo. Oltre nel senso che ha deciso di non partecipare al coro degli “occhio che così andiamo a scatafascio”, ed è andato direttamente al post-scatafascio. Quando noi, con la giusta franchezza, non ci saremo più. Quando saranno rimaste nel nostre tracce, i nostri palazzi, le nostre finestre aperte, le nostre strade, magari una barca, ma nient’altro. Niente di vivo quantomeno. E bentornati animali. Se quella di Piedino, Aladar e Arlo era la preistoria, quella di Flow è la poststoria; un ipotetico ma senza dubbio sereno day after che ogni tanto offre rinfrescate marine, alluvioni memorabili, un andirivieni oceanico delle origini in cui chi è rimasto - gli animali appunto - devono cercare di scamparla. Deve riuscirci un elegante serpentario, deve riuscirci un curiosissimo lemure, deve riuscirci un assonnato capibara e deve riuscirci un ingenuo labrador, orfano della sua bromance canara sempliciotta e fracassona (ve lo abbiamo detto, Flow è un film gatto). E deve riuscirci lui ovviamente, il gatto.
Flow, di Gints Zilbalodis
Flow è un film senza parole, ma pieno di voci. Quelle degli animali, ognuno con il proprio linguaggio verbale e ognuno con il proprio linguaggio del corpo, strumento evoluto insieme alle esigenze del singolo. E bene per il serpentario se con uno dei suoi trampoli riesce pure ad afferrare un timone; bene per il gatto che nell’equilibrio trova un alleato perfetto in una nuova geografia precaria; bene per il lemure che ha saputo (?) fermarsi un passo prima dell’uomo. Il capibara? Almeno dorme comodo. Il labrador? Avete mai visto un labrador triste? Poi ce la voce della natura, alta e potente, capace di urlare decibel in grado di sradicare foreste, ma allo stesso tempo forte nell’aver riconquistato il silenzio della quiete dopo la tempesta, climatica o umana che fosse. Poi, ancora, c’è la voce ipotetica, per alcuni la Voce. Quella dell’anima, inquilina tanto di un corpo felino quanto di un fusto di corteccia, tanto di ali piumate quanto di cosce pelose, tanto di un letto di fiume quanto di picchi rocciosi. Voci nel silenzio, che a conti fatti è forse il più bel regalo che Flow ci fa, al netto di averci fatto sparire dalla faccia terra.
Flow, di Gints Zilbalodis
Flow è un film darwinista che dall’evoluzione ha tolto di mezzo l’arroganza umana, salvo farcela intuire - o temere - nei lemuri che verranno. È un arca senza un Noè a impartire coppie di fatto, orari di partenza e via libera. È un film in cui la fantascienza coincide con un futuro molto, ma molto più probabile di quello di chi aveva “visto cose che noi umani”. Perché salvo essere un uccello nobile o un roditore obeso, un primate collezionista o un quadrupede che ha perso quello che si diceva il suo migliore amico, non ci sarà più nessuno a cui raccontarle, quelle cose. Non ci saranno gli umani. La fantascienza di Flow non ha tecnologia e soprattutto non ha chi ne possa sviluppare di nuova. A meno che non possa essere tecnologico un serpentario al timone. Il futuro di Flow, non per niente “flusso”, coincide con il ritorno definitivo della natura, degli animali che con lei evolvono, assecondandola con le loro esistenze e per la loro sopravvivenza. Se serve, superando la fobia dell’acqua. Perché Flow, di nuovo, è un film gatto.
Spuntato a Cannes in Une Certain Regard Flow ha conquistato pubblico e critica grazie proprio a quel suo certo sguardo. Nell’universo dell’animazione se il Sacro Hollywodiano Impero di zio Walt è ormai un tramonto lontano, pure l’oligarchia allargata ai John Lasseter, Steven Spielberg e Jeffrey Katzenmberg fa parte della storia. E non solo per le inarrestabili e riconosciute avanzate dell’Imperatore d’oriente Hayao Miyazaki (vedi l’ultimo Oscar andato al suo Il ragazzo e l’airone). A salire al trono un anno prima c’era riuscito pure Del Toro con Pinocchio, ma a prescindere dagli allori sempre più spesso riescono a splendere, ed allargarsi, nuovi orizzonti visivi; come Troppo cattivi di Pierre Perifel (sempre Dreamworks, ma altro look) o le meraviglie senza fili di Claude Barras, che agli ultimi European Film Awards si è visto superare con il suo “locarnese” Sauvages proprio dalle pennellate di Flow. Le pennellate di Gints Zilbalodis, un trentenne lituano con poche parole, qualche verso, ma tanto da mostrare.
Didascalia: Flow, di Gints Zilbalodis
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Tra le righe 06.01.2025, 14:00
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