Hanno ucciso l’uomo ragno, 8 puntate da poco meno di un’ora, su Sky da ottobre. La storia di formazione della coppia Max Pezzali-Mauro Repetto, gli 883, è scritta e diretta da Sydney Sibilia, già noto per Smetto quando voglio e molto apprezzato nel suo lavoro. Sibilia sa, effettivamente, quello che fa, e in questo caso sembra quasi aver dato alla luce il prodotto-nostalgia italiano definitivo: dopo questo, forse, basta nostalgia. È del 2021 un saggio memorabile, che come pochi altri scritti inquadra il tempo presente: “Nostalgoritmo” di Grafton Tanner (in italiano edito da Tlon e uscito nel 2024). Tanner insegna all’Università della Georgia, e in questo libro (di cui si potrebbe e dovrebbe parlare a lungo) racconta, tra le altre cose, anche il modo in cui l’industria dell’intrattenimento intercetta e alimenta un’emozione molto specifica: la nostalgia. Termine inventato nel 1688 da un medico svizzero, Johannes Hofer, era considerata una patologia; Hofer la osservò innanzitutto nei soldati che soffrivano per una comprensibilissima mancanza di casa. Oggi quest’emozione - non più patologizzata - è al centro dell’uso delle AI, ha a che fare con gli algoritmi, con le storie e con la politica. Ha di sicuro a che fare col successo di Hanno ucciso l’uomo ragno. Ma è sufficiente la nostalgia per ottenere un prodotto che funziona? La risposta è no, e questa serie ne è la prova.
Il primo punto di forza sono gli attori protagonisti, Elia Nuzzolo (un giovane Max Pezzali) e Matteo Oscar Giuggioli (Repetto): carismatici e credibili nelle dinamiche amicali, Elia Nuzzolo è più Scorpione di Pezzali e Matteo Oscar Giuggioli più Capricorno di Repetto. Sì, si stanno usando i segni zodiacali per spiegare due personaggi e no, non si sta neanche entrando nel dettaglio di cosa s’intende; basti dire che uno è pessimista ma di talento, intenso, ha un fuoco ma delle fragilità che nasconde, mentre l’altro è ottimista e pragmatico, un carrarmato. Uno è più chiuso e timido, l’altro ha il suo obiettivo in testa, fa aprire Max piano piano con la sua affidabilità e la sua costanza. Le qualità praticamente complementari dei due li faranno emergere, in una parabola di successo insolitamente non individualistica ma di coppia, una coppia d’amici.
C’è un altro personaggio con cui la dinamica funziona molto bene, ed è Silvia, interpretata da Ludovica Barbarito. Silvia ha un ruolo cangiante: intanto è il primo amore di Max. Hanno questo primo appuntamento in cui parlano, parlano, e piano piano cadono le maschere. Lei conquista la sua fiducia, lui smette di fingere di essere quello che non è e le racconta qualcosa che non aveva detto a nessuno, neanche a sé stesso. È così che lei diventa anche la sua scintilla dal punto di vista artistico. Una motivazione abbastanza forte per tentare quello che già voleva tentare. Un po’ Max Pezzali un po’ Martin Eden, il nostro diventa musicista per amore.
Poi si perde, anzi, si perdono. Max, Mauro, Silvia. E l’operazione-nostalgia diventa qualcosa di più, un momento in cui rivedersi e accettare dopo tanto tempo quel frangente complesso che è l’estate dopo la maturità, quando bisogna scegliere l’università e si sentono tutte le voci tranne la propria.
«Non avere un sogno era come averli tutti», ci dice Max. «Ma io un sogno ce l’avevo: dov’è che era finito?»
È bello che nella serie ritrovare sé coincida col ritrovare l’Altro che, nel caso di Max, è Mauro. Silvia è un po’ più complessa: segue il proprio desiderio, ma è un desiderio non immune alle sirene, per cui si mette col più bello della scuola solo perché è il più bello della scuola, ma dopo qualche tempo si annoia. Ha un’anima molto più punk - da birra, non da prosecco - e inizia a non sopportare più il fidanzato che studia Giurisprudenza e ha la puzza sotto al naso. Torna da Max. Gli dà nuova motivazione, continuando inconsapevolmente a ricoprire un ruolo da musa, da detonatore; è quello che succede quando senza volere gli ispira il primo singolo, “Non me la menare”. Silvia e Max sono la rottura delle reciproche gabbie, anche solo che si parlino è condicio sine qua non affinché nessuno possa rinchiuderceli.
È incredibile, quindi, il modo in cui i sogni del protagonista e la storia con Silvia siano legati, ce ne accorgiamo dopo una scena madre, quella in cui viene registrata la canzone che dà il titolo alla serie. Ma dopo l’episodio 6 non sappiamo ancora: lei, Silvia, è il premio oppure il prezzo da pagare? È così che funziona, che diventi chi eri destinato a essere e conquisti l’amore, oppure al successo è legata un’incomprensione di fondo, il concetto di rinuncia, di perdita, sacrificio? In altre parole, quel mito degli anni Novanta che il personaggio di Cisco riassume in modo brillante con “la proprietà transitiva della svolta” è effettivamente vero oppure è, per l’appunto, uno di quei tanti miti di quell’utopia al contrario (retropia, diceva Bauman) a cui puntiamo ogni volta che ci abbandoniamo alla nostalgia?
Serotonina, 17.10.24 - 883
Rosy Nervi, Serotonina, Rete Tre 17.10.2024, 08:00