Negli stessi giorni di uscita del film su Berlinguer, Elio Germano va in sala anche con l’interpretazione di un’altra biografia, stavolta solo “ispirata a”. Ispirata a chi? A Matteo Messina Denaro. Da una parte (Berlinguer) un’Italia che si piace tanto (e allora non si capisce come mai abbia perso), dall’altra un’Italia che si fa schifo, ma almeno si guarda in faccia e si vede per quella che è.
Il film è Iddu - L’Ultimo Padrino e Elio Germano non è l’unico grande attore presente; troneggia l’interpretazione di Toni Servillo, il rapporto tra i due personaggi sembra un riverbero della relazione attoriale che hanno in questo film. Elio Germano è Matteo, ‘U Pupu, Iddu, Lui. Ha i Rayban a velarne lo sguardo come elemento caratteristico fin dalle scene in cui è bambino. È feroce, violento ma anche malinconico, colto. Infine, è in gabbia.
Il film all’inizio è in siciliano stretto, tanto da aver bisogno di sottotitoli per impedire che lo spettatore o la spettatrice si perdano qualche parola.
Se si è (parzialmente) detto del Matteo di Elio Germano, ecco chi è il personaggio interpretato da Servillo; lo incrociamo che è appena uscito di galera, dov’è finito rifiutandosi di collaborare con la giustizia. Lo chiamano “il Preside” perché in effetti quel ruolo l’ha svolto per anni. Per poi diventare sindaco, assessore, consigliere comunale, massone, detenuto - per citare un elenco fatto da sua moglie che con astio ferocissimo e tragicomico si ostina a odiarlo in ogni singola scena in cui appare.
Amico di don Gaetano, il padre di Matteo, dunque di quest’ultimo padrino. Del più grande latitante di mafia.
Il Preside non si rifiuterà di cercare di incastrare il figlioccio, una volta contattato (e discretamente minacciato) dallo Stato. È un personaggio colto, la cui intelligenza smargina e diventa furbizia, cita Amleto ma lo fa per ego (in parte), per impressionare le guardie (dunque sempre per ego), e soprattutto per manipolare al meglio Matteo tramite una serie di lettere accorate e piene di affettata cura, che come frecce sanno esattamente a quale punto debole mirare: il rapporto col padre.
Tanti i dettagli interessanti del film: il foglio nascosto nelle branchie di un pesce, i nomi in codice che si danno nelle lettere e la riflessione a margine sui significati di questi nomi. Matteo si firma Emanuele, una citazione biblica, un’auto-identificazione con Gesù Cristo; chiede al Preside di firmarsi Sallustio: amico, filosofo, maestro di un imperatore. Un soprannome per l’altro che è in realtà celebrazione di sé.
Non che per il Preside (nome in codice Sallustio, nome effettivo Catello) sia pacifica la scelta di collaborare con le istituzioni di nascosto. Non quando esce fuori, poi, che le istituzioni stesse hanno tentato di catturare Matteo più volte, e potevano, ma proprio quando stavano per farlo arrivava l’ordine di evitare; questa, almeno, la versione riportata nel film, che in qualche modo rende conto di una parte di Stato connivente con la mafia. Catello è preoccupato, lo è sempre di più, tanto da svenire, a un certo punto, per la paura; l’aveva detto, del resto: «Io non ho mai avuto problemi con i miei nemici. Sono i miei amici che non mi hanno fatto dormire la notte».
Toni Servillo e Elio Germano in "Iddu"
Ci sono delle scene che valgono tutta la visione del film.
La prima è il progressivo esaurimento nervoso di Matteo (Elio Germano) nella casa in cui si nasconde ormai da tempo. Legge, legge tanto. Fa puzzle. Ne compone uno di quelli giganteschi, con migliaia di pezzi. Arrivato alla fine si accorge che manca il pezzo centrale. Non c’è. Non è nella scatola. Non è in alcun posto della casa. Matteo impazzisce. Capiamo molto del suo personaggio da questa scena: è uno che tratta con la stessa serietà un affare importante e truffaldino, un omicidio, un regolamento di conti, l’appiccare un incendio e un maledetto puzzle senza un pezzo. Dètta la lettera alla persona che è con lui in isolamento (che anzi lo ospita, ma di lei non diremo altro per non fare spoiler rilevanti), si tratta di lettera di rimprovero alla fabbrica del puzzle, in cui ne richiede un altro (di pezzo) o uno nuovo (di puzzle). Finisce con: “cordiali ma delusi saluti”.
Una scena ancor più emblematica è quella in cui Matteo legge la lettera del suo padrino, il Preside appunto, e scorgiamo dalla sua espressione che il punto debole è stato colto bene, ma anche che questo qua ha un cuore. Non viene mai redento per questo. Ma è importante mostrare le debolezze dei personaggi negativi, è importante non giudicarli, solo raccontarli. Il giudizio sta a chi guarda, e talvolta si può anche evitare.
Il tutto si apre e si chiude con ‘u pupu, da cui uno dei soprannomi del boss, cioè una statua antica che si tramandano di padre in figlio. Il contrasto tra la bellezza di un marmo classico e la cattività di un boss, i postacci fangosi in cui ‘u pupu viene nascosto, ricorda quello della Centrale Montemartini (su via Ostiense, che raccoglie dal 1997 statue antiche che si stagliano su pezzi della prima centrale elettrica di Roma): il paradosso, come ci insegna la mostra “Macchine e dèi” e come ci mostra Iddu, è che dagli opposti riuniti può nascere bellezza. È il caso di questo film.
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