«Io vedo nella tecnologia la nostra potenziale distruzione e la nostra potenziale salvezza. Come esseri umani, dipendiamo dalla tecnologia, da come la usiamo, da come la dominiamo, e da come impediamo che sia la tecnologia a dominare noi».
Sono passati più di vent’anni da quando James Cameron ha pronunciato queste parole al British Film Institute di Londra, ma non credo che abbia cambiato idea.
Il regista canadese ha sempre guardato verso il futuro – non solo del cinema, ma dell’umanità tutta – con occhi pieni di speranza, e di paura. I suoi film sono sempre stati tecnologicamente all’avanguardia, capaci di aprire nuove strade produttive e artistiche. E allo stesso tempo hanno raccontato storie apocalittiche, con tutta la potenza economica e culturale di cui solo Hollywood è stata capace nell’ultimo secolo. Nel cinema americano ci sono eccezionali professionisti, grandi autori, ma solo un piccolo novero di veri rivoluzionari: James Cameron è uno di loro. Un futurista (come da titolo dell’agiografica biografia scritta da Rebecca Keegan più di un decennio or sono, e mai tradotta in italiano), un apocalittico, un rivoluzionario.
James Cameron, gli inizi con Roger Corman
E pensare che la prima volta che si fece notare dal pubblico, nel 1980, fu per aver ideato e realizzato le astronavi di I magnifici sette nello spazio di Roger Corman, re incontrastato del B-Movie: non perché il film fosse un capolavoro (non lo era), ma perché una di quelle astronavi, beh, aveva le tette.
Ok, forse è il caso di spiegare meglio.
Cameron, allora venticinquenne, era stato ingaggiato come costruttore di modellini per gli effetti speciali di quel film, che – indovinate un po’ – aveva l’obbiettivo di fare un po’ di soldi seguendo l’onda della fantascienza che sbancava il botteghino in quegli anni, Star Wars, Alien e compagnia. Il suo primo lavoro fu quindi quello di creare la nave spaziale del protagonista, guidata da quella che oggi chiameremmo un’intelligenza artificiale, femmina, di nome Nell. Quindi, Cameron fece due più due, e propose a Roger Corman un’astronave che fosse evidentemente femmina anche nel suo aspetto esteriore, grazie a due appendici molto simili a mammelle. Poco sorprendentemente il regista, noto per avere una certa propensione a mostrare attrici seminude nei suoi film (così si vendevano più biglietti, diceva), fu entusiasta dell’idea, e promosse il ragazzo a responsabile dell’intero reparto effetti speciali. Lui aveva solo la teoria dalla sua parte, ma si muoveva già come un consumato professionista, non aveva paura di essere assertivo con i colleghi più anziani, e dava sempre l’impressione di avere una grande fiducia nelle sue possibilità: se sia stato solo un bravo attore, in quei momenti, non lo sapremo mai. Ma del resto sono gli americani a dire fake it ‘til you make it, no? Il giovane James ha solo rispettato quella regola d’oro.
Che Cameron avesse una certa – come dire – attitudine al comando, era insomma già chiaro fin da quelle prime esperienze pratiche nel mondo del cinema. In seguito pare però sia andato spesso oltre le regole dell’educazione, del vivere civile e perfino delle leggi sul lavoro, nel trattare con attori e maestranze sul set dei suoi film, tanto da essersi guadagnato la fama di regista dal carattere difficile (eufemismo). Lui stesso ha ammesso, in anni recenti, di essere stato un “piccolo dittatore” in passato, e per il futuro di voler assomigliare di più a Ron Howard, epitome del regista hollywoodiano capace di creare un’atmosfera positiva sul set.
Il fatto è che Cameron, oltre che regista, è un tecnico che conosce approfonditamente ogni settore del cinema, dalla regia alla fotografia, agli effetti speciali, al montaggio, e quindi tende a voler tenere tutto sotto controllo. Inoltre, a volte sono state proprio le idee di cinema “estremo” che lo hanno reso famoso, a creare i presupposti per qualche scontro con il cast e la troupe: ad esempio, la volta in cui rischiò di morire mentre stava filmando The Abyss.
Su quel set sottomarino, costosissimo e mai visto prima, il regista si muoveva con bombole di ossigeno e zavorre: aveva circa un’ora e un quarto di aria, e il suo primo assistente era incaricato di ricordargli di tornare in superficie dopo un’ora, visto che lui spesso perdeva il senso del tempo, assorbito dal lavoro. Un compito di importanza vitale, di cui nessuno si dimenticherebbe, giusto? In quel caso, però – dimostrando per l’ennesima volta che è sempre meglio non avere troppa fiducia nel lavoro di altri esseri umani – l’assistente non avvisò Cameron, che improvvisamente si accorse che non riusciva più a respirare. Cameron sapeva di non poter nuotare con tutta l’attrezzatura addosso, così si spogliò velocemente di quasi tutto, casco compreso. Mentre risaliva verso la superficie, uno dei subacquei addetti alla sicurezza capì la situazione e cercò di aiutarlo infilandogli in bocca un erogatore di riserva: per una inaspettata conferma della legge di Murphy, l’erogatore si rivelò difettoso, e cominciò a pompare acqua nei polmoni del regista, invece che ossigeno. Cameron iniziò ad agitarsi, mentre il sommozzatore tentava di tenerlo fermo e di tenergli l’erogatore in bocca. Vista l’impossibilità di comunicare, l’unica soluzione era prenderlo a pugni: al primo, il sommozzatore mollò la presa, e Cameron riuscì a raggiungere la superficie a nuoto. Quella volta, James si arrabbiò molto e licenziò in tronco sia l’assistente che il sommozzatore.
Ma al di là dell’aneddotica (e sappiamo che durante la lavorazione di The Abyss ci furono molti momenti difficili), possiamo considerare quell’episodio un esempio perfetto dell’approccio di Cameron: ogni produzione una performance olimpica, che richiede dedizione assoluta, talento e allenamento. Insomma: se hai paura del fuoco, non lavorare in cucina – e ricordati di rispondere sempre “Sì, chef!” quando il capo grida. Questa impostazione militaresca, che lo ha portato spesso a non essere particolarmente cordiale (altro eufemismo) con i suoi sottoposti, è in fondo l’unico tratto passatista della vita cinematografica di Cameron: per il resto, il futuro è sempre stato al centro dei suoi pensieri. Soprattutto dal punto di vista artistico.
Se perdonate il gioco di parole, James Cameron ha sempre messo la sua natura dispotica (o perfezionista, se preferite il lato positivo) al servizio del genere distopico, uno dei più popolari nella cultura di massa degli ultimi 40 anni. Ha usato le ultime tecnologie per raccontare le ansie del genere umano nei confronti della tecnologia stessa, fino a dar loro la forma dell’apocalisse.
La fine è sempre vicina, nei film di Cameron. La spada di Damocle dell’annientamento pende sulla testa dei suoi personaggi. E dipende sempre dal nostro rapporto con le macchine, dal nostro affidarci ad esse (Titanic), lasciare che invadano i nostri corpi (Terminator), permettere che ci sostituiscano (Avatar). Non è certo strano, che queste storie siano ancora più significative oggi, in anni in cui il nostro rapporto con il mondo artificiale è sempre più pervasivo, fino a sfumare i confini tra il nostro essere e la tecnologia che usiamo. Non viviamo con la tecnologia, viviamo la tecnologia. Questa esperienza moderna è al centro di quasi tutti i film di James Cameron, e si lega inestricabilmente ai tratti ancestrali della natura umana: l’amore, i legami familiari, la violenza.
La doppia natura di ingegnere e di narratore di James Cameron ha permesso al regista di creare gli strumenti con i quali raccontare le sue visioni tecno-apocalittiche, strumenti a cui oggi si affida una nuova generazione di filmmaker dell’era digitale: è stato Cameron ad aprire loro la strada, dimostrando che i computer potevano generare personaggi credibili, oltre ad ambientazioni fantastiche. Non stupisce che – seguendo l’esempio dell’altro grande rivoluzionario del cinema americano, George Lucas – anche lui abbia fondato la sua personale factory per la creazione di effetti speciali, la Digital Domain. Non stupisce che dopo il successo di Titanic abbia lasciato che la tecnologia maturasse per un decennio, prima di lanciarsi nella costruzione del mondo di Avatar, il suo progetto più rivoluzionario (e quello che invecchierà peggio, temo – ma è un’altra storia). Non stupisce neppure che sia stato sposato cinque volte, visto che tutta la sua vita sembra essersi mossa a una velocità tripla rispetto a quella di noi normali.
Cameron è la personificazione del passaggio epocale che il cinema hollywoodiano ad alto budget ha attraversato nell’ultimo quarto di secolo: la transizione dall’era della registrazione del reale a quella della generazione digitale, dalla pellicola al file. Avatar è un’illusione creata mettendo insieme performance, disegno, animazione, fotografia; alta sperimentazione al servizio del commercio di storie. Una rivoluzione preparata in trent’anni di carriera precedente, dalle discutibili astronavi costruite per Roger Corman in cambio di qualche centinaio di dollari ai miliardi dei film più visti della storia. E adesso? Bè, già nel 2009 Cameron aveva dichiarato alla PBS americana: «Francamente non ho molto tempo… Ho fatto, quanti? Sei o sette film in venticinque anni, e ora non so se ne avrò altri venticinque. Potrei avere a disposizione quindici anni, o qualcosa del genere. Quindi devo scegliere con cura i miei progetti, e rimanere concentrato». Oggi che quei quindici anni sono passati, non sembra che la pensione sia un’ipotesi da prendere in considerazione. Finché Cameron avrà idee, occhi, mani, voce e caratteraccio per dirigere i suoi film (e finché il mondo li aspetterà), rimarrà alla ricerca del prossimo futuro, della prossima apocalisse, della prossima rivoluzione cinematografica.
25 anni di Titanic (1./3)
Millevoci 13.01.2023, 10:40
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