Cinema

La trilogia dell’incomunicabilità di Antonioni

“L’avventura”, “La Notte”, “L’eclisse”. Il trittico dell’alienazione (borghese), che culmina con il Deserto Rosso, dove un’eccelsa Monica Vitti, nella ricerca di un sé autentico, si frammenta nel paesaggio di una società nevrotica

  • Ieri, 13:40
Michelangelo Antonioni

Michelangelo Antonioni

  • Keystone
Di: Raffaele Pedrazzini 

La trilogia s’apre con L’avventura, premio della giuria a Cannes nel 1960, cui trama narra di una giovane donna, Anna (Lea Massari), che scompare misteriosamente su Lisca Bianca (scoglio sassoso al largo di Panarea) durante una gita in barca con degli amici. La ricerca di Anna, fulcro dell’impianto narrativo per la prima metà del film, si rivela un pretesto espositivo che si dissolve gradualmente. Sandro (Gabriele Ferzetti), il fidanzato di Anna, e Claudia (Monica Vitti), la sua amica, inizieranno a frequentarsi poco dopo la scomparsa della ragazza. La loro relazione, che si configurerà come irrisolta, incapace di offrire un vero conforto, non comporterà significato a livello affettivo. Parallelamente, il mistero della sparizione non troverà soluzione, e sarà proprio l’assenza di risposte il vero nocciolo della trama.

Il sistema di personaggi, profondamente influenzato dall’umore, dal paesaggio e dagli eventi, si muove nel film in modo aleatorio. Quest’apparente casualità diventa simbolo della frammentarietà dell’esistenza di Claudia, dominata dalla mancanza di una bussola interiore, dall’incapacità di dare senso alle azioni (proprie e altrui), e dal progressivo allontanamento dall’altro. Terre esplorate da una fotografia magistrale, la metafora dell’assenza è rarefatta nei paessaggi desertici e isolari, cui Antonioni coglie ogni dettaglio — la ruvidezza della pietra, la vastità del mare, il vento, l’aridità del terreno. Le inquadrature, giocate con geometrie studiatissime, collocano i personaggi in posizioni liminari, aumentando la sensazione della loro scissione emotiva.

Ne La Notte, seconda pellicola della trilogia, la trama segue Giovanni (Marcello Mastroianni), scrittore in crisi, e Lidia (Jeanne Moreau), sua moglie, lungo una giornata. Gremita di incontri, silenzi e una festa mondana che occupa la seconda metà del film, Antonioni costruisce un’opera che è al contempo poetica e profondamente analitica, una meditazione sui nouveaux riches e la borghesia intellettuale dei primi anni sessanta che si sgretolano sotto il peso dell’indifferenza e del divertissement à tout prix.

«Antonioni consegna al cinema un poema in prosa che narra l’errare di uomini smarriti nei luoghi di lavoro e della vacanza, impegnati nella ricerca di nulla, probabilmente neanche più di se stessi, come era accaduto al Leopold Bloom dell’Ulisse di Joyce». (Fernaldo Di Giammatteo, Lo sguardo inquieto)

Durante la serata, la coppia si trova ad affrontare le tensioni innescate dal gioco della seduzione con altre persone: Giovanni con Valentina (Monica Vitti), la giovane figlia del padrone di casa, e Lidia con un industriale milanese. Giunti all’alba, un monologo di oltre dieci minuti chiude il film. La notte vissuta non è solo un intervallo temporale, ma un viaggio interiore verso una sconfortante verità. Un’amara dichiarazione sul tempo e sull’usura dei sentimenti: ciò che una volta era vivo e autentico è stato consumato dalla routine, dall’indifferenza e dall’incapacità di comunicare. La scena si chiude con una tensione irrisolta, senza possibilità di riconciliazione, cui Tarkovsky dirà: “[…] la sequenza finale è forse l’unico episodio in tutta la storia del cinema in cui una scena d’amore diventa una necessità e assume l’aspetto di un atto spirituale. È una sequenza unica, in cui la vicinanza fisica ha un grande significato. I personaggi hanno ormai consumato i loro sentimenti reciproci, ma restano comunque molto vicini. Come disse una mia amica una volta, trascorrere più di cinque anni con mio marito è come un incesto. Questi personaggi non hanno alcuna via di fuga dalla loro intimità. Li vediamo tentare disperatamente di salvarsi a vicenda, come se stessero morendo”.

Ne L’eclisse, ultimo film della trilogia, Vittoria (Monica Vitti) s’infatua di Piero (Alain Delon), un agente di borsa cinico e superficiale. Ambientato tra le strade asettiche della nuova Roma, il frenetico mondo della finanza contagia le relazioni umane, ormai anch’esse transazionali, modellate dal mercato e dalle sue tendenze. Se i primi due film esploravano perlopiù le dinamiche di alienazione nei rapporti di coppia e l’incapacità di ritrovare un senso nell’amore, L’eclisse amplia la riflessione, intrecciando il vuoto relazionale con quello esistenziale. La macchina da presa indugia senza sosta sugli oggetti, sui paesaggi e sulle architetture moderne, che s’elevano a protagonisti tanto quanto i personaggi, mentre il silenzio diviene strumento narrativo. Contrariamente a La notte, che si conclude con un confronto intimo e doloroso, qui Antonioni elimina del tutto i personaggi dalla scena finale, lasciando che gli spazi vuoti e l’assenza dei due protagonisti sottolineino l’impossibilità di costruire relazioni autentiche. Trascendendo il semplice racconto sentimentale, l’eclissi del titolo non è dunque solo metaforica, ma simbolo del chiaro-scuro che domina i rapporti umani nel mondo moderno.

06:19

Monica Vitti, Roma 1966

RSI Cultura 09.11.2022, 10:23

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