Come amava sottolineare Kenneth Anger, c’era un tempo in cui le stelle di Hollywood erano considerate vere e proprie divinità. Non solo erano adorate da milioni di “fedeli” e celebrate in migliaia di teatri, ma potevano concedersi lussi e dissolutezze degni dei più festosi baccanali. Quando il sangue prese a scorrere e gli eccessi si rivelarono fuori controllo, come i baccanali di epoca antica anche quelli più moderni furono però placati. Nel settembre del 1920, la morte della “fidanzata d’America” Olive Thomas scoperchiò un vaso di pandora fatto di droga e cattive compagnie che travolse non solo il marito Jack Pickford, ma il cinema americano nella sua totalità. Dietro alla patinata e rassicurante fabbrica dei sogni si spalancò un baratro sul fondo del quale chiunque poté vedere vizi, perversioni e manie dei grandi divi. Solo un anno più tardi, la giovane star Virginia Rappe sarebbe morta in circostanze orribile durante la festa privata dell’amatissimo comico Roscoe “Fatty” Arbuckle e, da lì a qualche mese, nel febbraio del 1922, l’omicidio di William Desmond Taylor avrebbe decretato la fine di ogni depravazione. La morte di Taylor coinvolse così tanti personaggi dello spettacolo da spingere le produzioni a prendere provvedimenti affinché gli attori firmassero clausole contrattuali a garanzia della loro buona condotta.

Virginia Rappe e Roscoe “Fatty” Arbuckle
A prendere provvedimenti non ci pensarono solo le grandi case di produzione, ma gli stessi Stati che, autonomamente, iniziarono a introdurre leggi sulla censura. Fu per non dover affrontare decine di differenti norme statali e altrettante difficoltà distributive che le major hollywoodiane decisero di autoregolarsi. Per farlo arruolarono Will H. Hays, che da bravo presbiteriano ebbe il compito di riabilitare la sfavillante immagine di Hollywood, danneggiata dai contenuti dei suoi film nonché dalle stesse star che li popolavano. Presidente della Motion Picture Producers and Distributors of America (MPPDA) dal 1922 al 1945, Hays segnò così una netta linea di demarcazione tra due grandi epoche. Una linea fatta per lo più di divieti.
William Harrison Hays
Per cominciare, Hays segnalò alle produzioni una serie di raccomandazioni e chiese che i registi inviassero una trama dettagliata del film prima dell’inizio delle riprese. Successivamente, giunse una vera e propria lista di divieti. L’elenco comprendeva la proibizione di volgarità di ogni sorta nonché l’abolizione di determinate parole, quali “Dio”, “Cristo” e “dannazione”. Fu ovviamente proibita ogni nudità, la rappresentazione di traffici illeciti, la derisione del clero e l’offesa a qualsiasi religione. Persino le scene di parto, dirette o in silhouette, furono bandite. Ai divieti tassativi si aggiungeva una lunga lista di contenuti sconsigliati, qualora non si volesse rischiare di incorrere nella censura a film già montato. Tra le cose di cui bisognava stare molto attenti c’erano l’utilizzo consono della bandiera americana, la rappresentazione degli omicidi, le operazioni chirurgiche, i baci troppo lussuriosi, lo stupro e persino la rappresentazione di un uomo e una donna nello stesso letto.
La nuova regolamentazione ebbe un aggiornamento nel 1929, quando l’editore Martin Quigley e il sacerdote gesuita Daniel Lord, preoccupati soprattutto dell’effetto dei film sonori sui bambini, presentarono un codice agli studios. Il documento era sostanzialmente suddiviso in due parti: nella prima si indicavano gli elementi generali che abbassavano lo standard morale del pubblico, nella seconda si elencavano nello specifico quelli da non rappresentare. Per quanto i produttori ritenessero ridicole determinate ingiunzioni, abbracciarono il codice pur di evitare interventi diretti da parte dello Stato, consegnando il cinema agli anni più bui della storia della censura hollywoodiana.
Tra i vari film che non passarono il sottilissimo filtro del Codice a causa di alcune scene di nudità ci fu Tarzan e la sua compagna (1934) di Cedric Gibbons, ma molte furono le pellicole che, filmate in epoca pre-code, dovettero essere girate nuovamente sotto forma di remake edulcorati, quali Il Dr. Jekyll e Mr. Hyde (1941) di Victor Fleming. Se i limiti imposti dal bigottismo imperante impedirono per i più il libero esercizio della propria arte, per altri, come il regista Edward Dmytryk, il codice si rivelò utile proprio perché costrinse a riflettere: “Se volevamo trasmettere qualcosa di censurabile dovevamo farlo in modo subdolo. Dovevamo essere intelligenti. E di solito le cose risultavano molto meglio che se le avessimo fatte secondo le regole.”

Naturalmente, le produzioni indipendenti riuscivano talvolta ad evitare la censura proprio grazie ai loro limiti distributivi, come accadde per Child Bride (1938) di Harry Revier, che trovò la propria strada nonostante la scena di nudo che coinvolgeva un’attrice dodicenne. Salvo rari casi, le produzioni dovettero però agire all’interno del Codice fino alla fine degli anni Quaranta, almeno fino a quando l’avvento e l’imposizione di un nuovo media costrinse a reagire. La televisione iniziava a mostrare il proprio potenziale. Nonostante fosse anch’essa regolata da norme restrittive sui contenuti, le produzioni cinematografiche dovettero darsi da fare per offrire novità a un pubblico che già si abituava a guardare film sul piccolo schermo. In aggiunta, il grande cinema europeo, non soggetto alle normative statunitensi, iniziava a suscitare l’interesse di pubblico e critica, costringendo gli studios ad alzare l’asticella dei propri prodotti.
Si trattò dell’inizio di una lenta fine che portò all’abbandono del codice. Nel 1966, il film Chi ha paura di Virginia Woolf? di Mike Nichols se la cavò con un cartello iniziale che consigliava la pellicola a un pubblico maturo. Nello stesso anno, l’Hays Office chiuse i battenti. La Nuova Hollywood era alle porte.
NOT 16.00 del 5.04.2021 - Fine della censura nel cinema italiano
RSI Info 05.04.2021, 16:43
Contenuto audio