Cinema

Paul Thomas Anderson

Cinque ragioni per amare il suo cinema

  • 17.03.2022, 09:33
  • 14.09.2023, 09:19
Paul-Thomas-Anderson
Di: Michele Serra 

“Lentamente, cautamente, vaccinati di tutto punto, stiamo tornando ad assaporare alcuni dei piaceri fondamentali di una vita normale.”

L'introduzione alla lunga intervista a Paul Thomas Anderson uscita sul New Yorker agli sgoccioli del 2021 è già invecchiata male, neanche tre mesi dopo: nuove ansie collettive si sono sommate a quelle degli ultimi due anni, e lasciarsi trasportare dai piaceri della succitata vita normale non è ancora così semplice. Eppure quella parola – “piacere” – legata a un atto semplice come quello di uscire di casa per andare al cinema, è ancora quella che meglio definisce l'esperienza della visione di un film del regista californiano, nonostante tutto. Il suo ultimo Licorice Pizza, pluricandidato agli Oscar 2022, è in effetti soprattutto questo: piacere in forma cinematografica, che a ogni sequenza solletica il godimento dello spettatore, fino a provocare una sorta di scatto di totalità che amplifica la soddisfazione per ogni singola inquadratura. Licorice Pizza è amore per il cinema, piacere per chi guarda.

Difficile dire se sia il film più riuscito di Anderson, ma solo perché la concorrenza è agguerrita: la sua parabola di regista è all'apice da una ventina d'anni, con l'esperienza ormai acquisita e i compromessi tipici dell'età avanzata che sembrano ancora lontani. Dal 1997 (aveva ventisette anni!) e da Boogie Nights, i passaggi a vuoto sono stati rari: Magnolia, Il petroliere, The Master, Il filo nascosto sono capolavori riconosciuti e celebrati. Anderson, nato insieme ai primi vagiti della New Hollywood, oggi è l'autore più importante generato dall'onda lunga di quella rivoluzione. I suoi film hanno gettato le fondamenta di un piccolo culto cinefilo: fatto per nulla sorprendente, se consideriamo che ognuno trasuda gratitudine nei confronti dei grandi autori americani venuti prima di lui. Ci sono, tra gli adepti della setta andersoniana, molti critici cinematografici. Gente poco affidabile, si sa, ma se non altro capace di mettere in luce con chiarezza le ragioni fondamentali della propria passione.

La prima risiede senza dubbio nell'infinita ambizione estetica di Anderson, capace di trasformare in epica cinematografica anche i suoi film apparentemente più “piccoli”: Ubriaco d'amore, ad esempio, dura solo un'ora e mezza, e il suo protagonista è un uomo mediocre; eppure il film è colmo di immagini dal fortissimo impatto. Basta l'incipit: il protagonista Adam Sandler è al telefono, nell'angolo dell'inquadratura widescreen (e di un magazzino spoglio, nel quale una striscia di vernice blu sulla parete bianca è l'unico accento di colore, abbinato all'abito dell'attore). Ascoltiamo la sua conversazione per un minuto esatto, poi Sandler si alza, facendo partire un piano sequenza in cui il movimento di macchina gioca con la presenza dell'attore, prima seguendolo, poi anticipandolo, fino a portarci a osservare un inaspettato, rocambolesco incidente automobilistico e l'altrettanto inaspettata consegna di un pianoforte – scusate, a voler essere precisi si tratta di un harmonium. Di certo sono bastati quei primi due minuti, per convincere i giurati di Cannes 2002 ad assegnare a Anderson il Prix de la mise en scène.

La seconda ragione – indissolubilmente legata alla prima – è la predilezione per i formati grandi, consapevolmente "cinematografici", come il 70 mm: in un'epoca in cui il widescreen è considerato uno strumento di base nella cassetta degli attrezzi del regista, Anderson è tra i pochi capaci di valorizzarlo davvero.

La terza è la capacità di circondarsi di attori-icona, tra i quali spiccano Daniel Day-Lewis, Joaquin Phoenix e soprattutto Philip Seymour Hoffman. Il figlio ancora minorenne di Hoffman, Cooper, ha debuttato come protagonista proprio in Licorice Pizza, aggiungendo un ulteriore livello di significato – o un carico emotivo, se preferite – al risultato finale. E dimostrando nel frattempo che qualunque attore, se diretto nel modo giusto, può offrire una grande performance... ma questo è un altro discorso. Sia come sia, questi attori hanno offerto, nella maggior parte dei casi, la loro variazione sul tema dell'uomo-demiurgo ossessionato dal suo ruolo, dal suo lavoro o dal suo obbiettivo (Hoffman in The Master, Day-Lewis in Il petroliere e Il filo nascosto): personaggi che si possono facilmente accostare a un regista che si autodefinisce maniaco del controllo.

La quarta ragione per amare il cinema di Paul Thomas Anderson è la passione per la musica, una presenza dominante che partecipa alla narrazione più che commentarla: viene in mente per primo il numero musicale in cui i personaggi di Magnolia – tutti in qualche modo devastati dalla paura e dal risentimento – cantano Wise Up di Aimee Mann, sequenza che rappresenta uno degli apici emotivi del film. La canzone serve effettivamente a chiarire il modo in cui voci e identità diverse si fondono in un'esperienza unitaria: un'altra metafora del cinema, esercizio collettivo in cui artisti diversi si mettono al servizio di una coscienza comune (magari, impersonificata in un regista)? Può darsi.

All'estremo opposto dello spettro d'uso della musica nel cinema di Anderson c'è la scena in cui, verso la fine di The Master, la colonna sonora lascia il posto alla viva voce di Philip Seymour Hoffmann, che canta a cappella On a Slow Boat to China, uno standard jazz degli anni Quaranta. Un'altra canzone che diventa sfogo emotivo, capace di liberare i personaggi dalla pressione accumulata fino a quel momento in modo diverso, più assurdo e più efficace rispetto a ogni possibile dialogo.

La quinta e più importante è lo sguardo sull'uomo. Il metterci davanti, film dopo film, personaggi che ricercano e allo stesso tempo temono la solitudine, la disconnessione dagli altri. Un tema tremendamente moderno (e occidentale, a dirla tutta), quello del terrore del vuoto che viene combattuto con l'iperattività, il tenersi freneticamente “occupati”, il perfezionismo. Anderson lo racconta girando film che a loro volta sembrano voler continuamente giustificare la loro stessa esistenza con la cura ossessiva di ogni particolare, ogni battuta, ogni inquadratura. Fino a quando la pressione non trova uno sfogo. Che siano risate o lacrime, non importa: è in ogni caso terapeutico per chi guarda.

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