Roman Polanski si porta appresso, oltre alle numerose primavere, anche il peso di una storia costellata di tragedie e scandali, stigmatizzazioni e lodi, che ne hanno fatto il capro espiatorio di lotte necessarie oggi come ieri. Polanski, nato a Parigi il 18 agosto del 1933, è da annoverare tra i grandi geni del cinema, anche se purtroppo difficile risulta parlarne senza riuscire a scindere vita privata e lavoro artistico. Forse perché più di molti ha incarnato nella sua persona la coesistenza di queste due istanze, polarizzando la percezione del suo lavoro e facendone figura iconica dell’eterno quesito etico tra morale e genialità.
L’opera
Capolavori, i suoi, che spaziano tra generi e stili ma che in comune hanno sempre quel talento straordinario nel sondare le profondità dell’animo umano e nel trasporre emozioni complesse e controverse sullo schermo. Incubi, ossessioni, uomini nell’ombra, devil e evil che abitano in noi, che prendono via da una Storia (quella a cavallo tra i due secoli) nata sotto l’insegna dello sterminio degli ebrei (raccontato ne Il Pianista – Palma d’Oro al Festival di Cannes del 2002 e Oscar nel 2003) e oggi alle prese con insidie ben più grandi di noi, e oltre e malgrado noi, in questo millennio (The Palace 2023). L’impronta, tra trionfo e tormento, che Roman Polanski ha finora lasciato nel mondo della settima arte è indelebile, anche in virtù della varietà di sfaccettature che dalla tensione claustrofobica di Rosemary Baby va al mistero inquietante di Chinatown.
Ma il suo successo non sarebbe tale se non avesse avuto la genialità di contrapporre a queste tematiche il gusto dell’assurdo e un umorismo surreale, come dichiarò già Alberto Barbera, direttore della Mostra del Cinema di Venezia – dove peraltro Polaski presenterà quest’anno fuori concorso la sua ultima opera The Palace: “Un maestro della modernità, capace di mescolare il gusto dell’assurdo all’umorismo surreale, il senso dell’angoscia individuale a quello della tragedia storica, il kammerspiel al fantastico, il fascino discreto della violenza all’attrazione irresistibile per l’avventura”. Le cose non sono mai come sembrano infatti nelle sue opere, Polanski è sempre pronto a montare e smontare cliché di qualsiasi genere cinematografico. Gioca con le immagini, ma anche con le parole, e come raccontò sui Cahiers du Cinéma in un’intervista datata 1969: “Io non voglio che lo spettatore pensi in questo modo o in quest’altro. Voglio solo che non sia sicuro di niente. È questa la cosa più importante: l’incertezza".
Non solo, quel che colpisce chi scrive rispetto al suo modo di raccontare sono anche le tecniche narrative utilizzate in maniera pionieristica e poi prese a prestito nel cinema a seguire. Pensiamo alla narrazione immersiva, che già in Repulsion del 1965 esprime la potenza della narrazione visiva. Qui viene infatti esplorata la psiche umana attraverso il punto di vista di una protagonista che perde gradualmente il contatto con la realtà. Lo spettatore entra così nella mente dei personaggi aprendo nuove possibilità per esplorare temi psicologici complessi.
La sapienza poi nel creare suspense e tensione psicologica. Come in Rosemary’s Baby, 1968, dove regia, illuminazione e colonna sonora vengono sfruttate per costruire un senso costante in di inquietudine, trasformando l’ambiente circostante in un un personaggio a sé stante capace di evocare lui stesso emozioni e definendo così il genere dell’orrore psicologico.
Parlando di ambienti, altra caratteristica imprescindibile da alcune sue opere è l’esplorazione dei luoghi chiusi: spazi ristretti e claustrofobici in cui i personaggi vengono posti. Evidente sin da Il coltello nell’acqua del 1962, il suo primo lungometraggio, in cui una barca diventa arena di conflitto tra tre personaggi. Questa tecnica huis clos (che ritroveremo anche in opere successive come Carnage del 2011 e che caratterizza la Trilogia dell’appartamento) ha influenzato la narrazione di molti film successivi, dimostrando che la limitazione dello spazio può amplificare l’esperienza emotiva del pubblico.
La vita
Nato in Francia da genitori polacchi non praticanti, Rajmund Liebling – questo il suo nome in origine, all’età di tre anni torna, a causa delle tensioni che iniziavano a inasprirsi, a Cracovia, città di origine della famiglia. Qui, per facilità di pronuncia cambierà i suoi dati all’angrafe con Roman Polanski, prendendo il cognome materno.
La sua è un’infanzia vissuta sotto le crudeltà dell’occupazione nazista, e questo caratterizzerà larga parte della sua opera. Mentre la madre viene deportata e uccisa a Auschwitz, il padre sarà mandato a Mathausen, non prima di essere riuscito a sistemare Roman in famiglie di contadini cattolici. A seguito di ciò Roman si dichiarerà poi negli anni ateo. Il padre non muore e i due si ricongiungono al termine della guerra.
Ritroviamo parte di queste memorie nel film Il pianista con Adrian Brody, premio Oscar per la regia. Il Pianista è il suo film più personale dove il dramma storico ripercorre la storia vera di Władysław Szpilman con diversi elementi in comune a Polanski. È allo stesso modo, oltre ai riconoscimenti importanti che ne hanno consacrato il successo, l’opera a cui il regista è più legato in assoluto e per la quale vorrebbe essere ricordato.
La sua creazione ha riportato il regista a Cracovia e gli ha permesso di ripercorrere gli inizi della sua carriera da cineasta. La scuola di Cinema di Lodz, l’incontro con Andrzej Wajda, il primo grande successo, il già citato Il coltello nell’acqua che farà conoscere il suo talento al resto del mondo per la candidatura agli Oscar come miglior film straniero.
Roman si trasferisce prima a Parigi e poi a Londra, sposa e poi tre anni dopo divorzia dall’attrice Barbara Lass, gira Repulsion con Catherine Deneuve e poi l’anno dopo Cul de sac con Françoise Dorléac. La prima commedia, parodia vampiresca, girata sulle Alpi italiane Per favore non mordermi sul collo è l’occasione per conoscere sul set la bellissima Sharon Tate, primo grande amore della sua vita. Si sposeranno il 20 gennaio del 1968 e poco più tardi uscirà Rosemary’s Baby. Tutto sembra andare molto bene, troppo. Polanski è felice, è un cineasta affermato e ha una moglie incredibile, che aspetta un figlio. Voci di tradimenti, ma niente in confronto alla tragedia: il 9 agosto del 1969, mentre Roman prepara Paganini a Londra, Sharon Tate all’ottavo mese di gravidanza e alcuni amici che festeggiavano da lei vengono brutalmente assassinati nella villa di Cielo Drive, a Bel Air, da un seguace della setta di Charles Manson.
Da lì il buio. Polanski dichiarerà di non essersi mai più ripreso negli anni a venire (complice anche l’accusa, poi ritirata, di occulte responsabilità) e di aver compiuto gesti senza pensare.
Lo aiuterà il cinema, con Mackbeth prima, poi Che? in Italia con Mastroianni.
Ritrovata un po’ di pace, nel 1974 esce Chinatown (undici candidature all'Oscar), detective story con atmosfere fumose nello stile di Raymond Chandler, con Jack Nicholson e Faye Dunaway e nel 1976 è il turno de l’Inquilino del terzo piano di cui è anche protagonista.
È del 1977 la prima accusa di stupro ai danni di una ragazzina di 13 anni, Samantha Geimer, modella per un servizio di Vogue. Internato per 42 giorni nella prigione di Chino, fugge in Francia mentre è in attesa della sentenza precludendosi così la possibilità di tornare negli Stati Uniti.
Continua a girare, e a far girar la testa. Incontra Emmanuelle Seigner che dirigerà in Frantic (angosciante thriller parigino del 1988), nel thriller erotico del 1992 Luna di Fiele, e Venere in pelliccia nel 2013.
Lo scandalo dello stupro incomberà per sempre sulla sua vita. Anche se il documentario Roman Polanski: wanted and desired di Marina Zenovich, presentato al Sundance film festival nel 2008 cerca di gettare nuova luce sui fatti (attraverso la ricostruzione del processo, interviste legali e testimoni, compresa la Geimer che addolcisce le accuse e perdona il regista), nel 2009 arriva la notizia dell'arresto all'aeroporto di Zurigo e l'obbligo dei domiciliari a Gstaad. Se la ricorderanno in molti. Una petizione viene firmata da oltre 100 personalità, tra cui Woody Allen, Scorsese, Lynch, Almodovar, Wes Andreson e Tilda Swinton. Nel 2010 l’estradizione negli Stati Uniti è comunque negata dalla giustizia svizzera.
Sarà paradossalmente proprio il successo a riaccendere il fuoco della polemica con J’accuse – L’ufficiale e la spia del 2019. Poco prima dell’uscita del film infatti un’altra pesante accusa di stupro – quando aveva 18 anni - da parte della modella Valentine Monnier, questa segue di soli due anni quella di Renate Langer, che all’epoca delle violenze ne avrebbe avuti 15. Il regista nega sempre ogni responsabilità.
Siamo in pieno #MeToo, e si capisce come giustamente il caso Polanski rientri esattamente in ciò che il movimento vuol denunciare. Critiche e diserzioni in sala e nelle cerimonie a Cannes e alla cerimonia dei César, e sembra che più il film viene premiato, più l’immagine del regista è macchiata.
Parlare della figura di quest’uomo e farci i conti ci pone di fronte alla stessa domanda, è possibile scindere l’opera dall’uomo? Qualunque possa essere la risposta in ognuno di noi, la sua filmografia non riesce a stare lontana da temi quali l’espiazione e il senso di colpa, i sentieri cupi e nascosti dell’animo umano e su come il destino possa accanirsi sulla vita di un uomo. E in qualsiasi modo la pensiamo, ogni suo film sembra legarsi indissolubilmente al mondo contemporaneo che lo circonda e volente o nolente alla sua sfera privata.
Di certo questi 90 anni li festeggerà anche con il suo ultimo film in uscita a settembre, The Palace, girato in Svizzera a Gstaadt in 17 settimane, una commedia dal sapore malinconico dove un gruppo di vip affronta l’inizio di un nuovo millennio…