Il volto ghignante di Jack Nicholson non si dimentica. E neppure quei corridoi deserti e quel rumore di ruote sul pavimento. Si attutisce ogni volta che il triciclo del piccolo Danny passa su un tappeto per esplodere nel silenzio appena procede oltre. Neppure delle due gemelline ci si dimentica; né del sangue. Soprattutto rimane la sensazione di esserci persi in un luogo indefinito e pericoloso, dove qualcosa è in agguato e ci cerca. Shining compie quarant’anni. Ed è ancora un rompicapo inquietante e affascinante come quando uscì nelle sale cinematografiche, il 23 maggio del 1980.
Oggi è scontato considerare questo film un pezzo importante e pregiato di storia del cinema e uno dei moderni classici dell’horror. Ma i critici allora non lo apprezzarono tanto. Il pubblico lo accolse invece molto meglio fin da subito. Stanley Kubrick (nato il 26 luglio 1928) ci stava lavorando da circa tre anni. Barry Lyndon, il suo precedente capolavoro, aveva deluso a livello di incassi e Kubrick era a caccia di un’idea. Leggeva un sacco, come al solito. Una storia, questo gli serviva. E la storia arrivò. Lo scrittore Stephen King era un missile puntato verso le stelle. Appena trentenne era già un acclamato autore di bestseller. Qualcuno alla Warner Bros fece avere a Kubrick una copia del suo nuovo romanzo, The Shining. Isolati da una nevicata in un albergo del Colorado chiuso per l’inverno, il nuovo custode, sua moglie e suo figlio piccolo sono confrontati con le forze maligne che vivono nell’hotel e che il bambino può sentire grazie a uno speciale dono psichico, la “luccicanza” (shining, appunto). È una storia di fantasmi e di sovrannaturale, ma è anche una storia del lato oscuro che c'è dentro di noi. Kubrick lesse il romanzo, senza scagliarlo contro il muro come faceva dopo poche pagine con i libri che non catturavano la sua attenzione. Lo lesse tutto. Aveva trovato il suo prossimo film.
Una lavorazione lunga e maniacale
17 settimane: tanto dovevano durare le riprese agli EMI Elstree Studios, non lontani da Londra. Kubrick e la sua troupe vi rimasero per 14 mesi. Agli Elstree venne ricostruito l’imponente e minaccioso Overlook Hotel: i suoi interni, la facciata posteriore e il labirinto di siepi all’esterno, un’opera eccezionale di production design. La facciata principale visibile nel film è quella del Timberline Lodge di Mount Hood, nell'Oregon, filmata dalla squadra che Kubrick inviò negli Stati Uniti. Da quando si era trasferito in Inghilterra, il regista americano non si spostava quasi più. Le riprese dall'elicottero che aprono il film sulle inquietanti note del Dies Irae di Berlioz rielaborate da Wendy Carlos, già al fianco di Kubrick in Arancia Meccanica, e Rachel Elkind, sono state realizzate al Glacier National Park nel Montana. Per gli interni dell’Overlook, ricostruiti agli Elstree, vennero presi a modello differenti altri alberghi, come l’Ahwanee Hotel nello Yosemite National Park o come L’Arizona Biltmore di Phoenix, del quale venne ricreato esattamente il rosso bagno degli uomini. Kubrick cercava il realismo, con maniacale attenzione al dettaglio. L’illuminazione costituì una grande sfida per John Alcott, acclamato direttore della fotografia in Barry Lyndon. All’interno degli studi fu allestito un impressionante pannello con centinaia di lampadine per simulare la luce naturale che filtrava dalle finestre dell’hotel: impossibile passarci davanti percorrendone tutta la lunghezza mentre era in funzione, tale era il calore generato.
L'’invenzione al servizio dell’immagine
L’attenzione di Kubrick per le immagini, il suo perfezionismo nell'estetica, era andato formandosi già dai tempi in cui era fotografo per la rivista Look. In The Shining (il titolo originale ha l’articolo) poté contare su una portentosa fonte di ispirazione tecnologica. Garrett Brown, inventore e cineoperatore, aveva da poco creato la steadicam, l'innovativo stabilizzatore che permette di realizzare riprese in movimento prima impensabili. Era già stata usata sul set di Rocky e altri film. Kubrick ne intuì subito le potenzialità e le sfruttò a fondo per concretizzare le sue idee visive dove ogni inquadratura, ogni movimento, hanno un senso preciso, teorizzato, cercato e infine realizzato ripetendo decine e decine di volte la ripresa di una stessa scena. Brown dovette ricorrere a tutte le sue doti atletiche per seguire le ferree indicazioni del regista, noto per mantenere il controllo totale su ogni dettaglio dei suoi film. “Nessun grado di libertà, per niente, assolutamente nessuna libertà. – ha ricordato Brown, ospite del Locarno Film Festival nel 2014, in un’intervista pubblicata dal Corriere del Ticino – Ma per me è stata una grande disciplina. La steadicam non è solo uno stabilizzatore, è come uno strumento musicale, un modo di muovere l'obiettivo con tale grazia, in tali curve che sono impossibili con un dolly (…). In Shining non c'era però una vera e propria opportunità di riprendere in questo modo. Quello che voleva Stanley era quasi meccanico, erano delle linee semplici. Quelle riprese sembra non abbiano un vero punto di vista, non si percepisce la natura della creatura che guarda. Forse è il punto di vista dell'hotel. Una cosa bizzarra da pensare. L'occhio dell'hotel che entra nel mezzo della sala. È un interessante e spaventoso pensiero. Ed è quello che le riprese fanno sentire. Non è solo il punto di vista di chi fa il film, è come se l'edificio guardasse dentro se stesso”.
Una dura prova per gli attori
Anche gli attori, naturalmente, erano messi sotto pressione dagli infiniti ciak. Kubrick stimava moltissimo Jack Nicholson e i due parlavano da tempo di lavorare insieme. Fu la prima scelta del regista per il ruolo di Jack Torrance, il nuovo custode dell’Overlook e aspirante scrittore che in quell’isolamento tenta di scrivere un romanzo che diverrà solo la testimonianza della sua discesa nella paranoia. Anche Shelley Duvall, attrice dall’aspetto insolito scoperta da Robert Altman, fu la prima scelta per la parte di Wendy, la moglie di Jack. Il piccolo Danny Lloyd, nel ruolo di Danny Torrance, fu trovato con un casting fra 5000 bambini nelle città di Chicago, Denver e Cincinnati: i bambini dovevano avere un accento che fosse una via di mezzo fra quello di Nicholson e quello della Duvall. Scatman Crothers ebbe invece la parte di Halloran, il cuoco dell’albergo che con il piccolo Danny condivide il dono della luccicanza. Ricorda ancora Brown: “Una delle ragioni per cui Kubrick girava così tante volte ogni scena era che al montaggio voleva avere ogni possibilità. (…) Penso avesse delle versioni di ogni scena che andavano dall'apatia all'isteria, con gli attori che diventavano più e più eccitati, rumorosi o arrabbiati. E per ottenere queste performance certe volte penso sia stato un po' crudele verso Shelley (Duvall, n.d.r.)”. L’esperienza di Shining per la Duvall sarà un vero e proprio tormento, uno stress enorme che le causerà anche problemi di salute. Un assaggio delle discussioni tra lei e il regista lo si trova in Making The Shining, il documentario girato sul set da una delle figlie di Kubrick, Vivian. Comunque, a furia di girare e rigirare ogni scena, poteva saltare fuori qualcosa di imprevisto e memorabile. È il caso di “Here’s Johnny!”, la battuta che Jack pronuncia quando abbatte a colpi d’ascia la porta del bagno in cui Wendy si è rifugiata (in italiano è tradotta con “Sono il lupo cattivo!”). Nicholson, che di porte ne buttò giù una sessantina, la improvvisò ispirandosi all’introduzione del Tonight Show di Johnny Carson, programma celebre negli Stati Uniti.
King vs. Kubrick
Se Shining è un film di genere, il genere non è l’horror, il genere è “un film di Stanley Kubrick”. Dal romanzo di Stephen King, asciugato fino all’essenziale, il regista realizzò qualcosa di assolutamente personale, rifiutando la sceneggiatura dello stesso autore e scrivendone un’altra insieme a Diane Johnson. King, comprensibilmente, non apprezzò i cambiamenti. “Il libro è caldo e il film è freddo – ha dichiarato lo scrittore qualche anno fa a Rolling Stone – il libro finisce nel fuoco e il film nel ghiaccio. Nel libro c’è un arco in cui vedi questo tizio, Jack Torrance, che cerca di essere buono e a poco a poco diventa pazzo. Per quello che mi riguarda, quando ho visto il film, Jack era pazzo fin dalla prima scena”. Se King detesta l’interpretazione di Nicholson voluta da Kubrick, è ancora meno tenero riguardo ai cambiamenti del personaggio di Wendy, che nel romanzo è una donna forte e determinata mentre nel film, parole di King, “è presentata come una specie di strofinaccio urlante”, una cosa che lo scrittore ha sempre trovato misogina.
Fa sorridere rileggere certi commenti dei due. Kubrick prima loda sinceramente King come macchina da storie, dicendo che il plot di The Shining è una delle cose migliori che abbia mai letto in questo genere. Poi con la sua candida freddezza da anaffettivo entomologo se ne esce con “credo che King non sia molto interessato al modo in cui scrive. Sembra che abbia scritto il romanzo, lo abbia riletto una volta e poi mandato all’editore”. King – al quale queste critiche non hanno impedito di vendere infiniti milioni di libri, cosa che fa sospettare che qualcosa di scrittura ne capisse già allora – dal canto suo nota che Kubrick il genere horror semplicemente non lo conosce.
Può darsi che sia una questione di diverse prospettive. Stephen King è preciso quando definisce la dimensione sovrannaturale dei suoi romanzi. Spiega, dice esattamente quello che succede e perché. Per questo le sue storie hanno muscoli d’acciaio, sono inarrestabili e quando azzannano un lettore lo trascinano senza fermarsi mai. Non cerca riverberi indefiniti, rarefatti spazi evocativi. Kubrick invece – altrettanto preciso a modo suo – sembra voler creare altro, una dimensione con più echi al suo interno. In entrambe le visioni, quella di King e quella di Kubrick, sono presenti sia la dimensione psicologica che quella sovrannaturale, ma cambiano gli accenti e gli approcci ed entrambi sono in continuo movimento. La dimensione psicologica in King c’è eccome, ci sono demoni non sovrannaturali, quelli dell'alcolismo di Jack Torrance, ma altrettanto reali sono le presenze oscure contro le quali i personaggi devono agire, fare delle scelte, soccombere o lottare. In Kubrick è difficile stabilire una volta per tutte cosa è naturale e cosa fuori dall'ordinario. Ma i protagonisti sono confrontati con una forza esterna alla quale non possono opporsi. È forse meno sovrannaturale di King? Quello di Kubrick, continuando in questo continuo oscillare e sovrapporsi di opposti, è un approccio sia teorico che squisitamente pratico, un dar forma al pensiero astratto attraverso la prassi, testimoniato anche dal realismo nella costruzione dell’Overlook. “Volevo che l’hotel sembrasse autentico – dichiarò al critico francese e direttore della rivista Positif Michel Ciment – piuttosto che un tradizionale albergo stregato da film. La sua pianta labirintica e le sue grandi stanze, da sole credo provvedano a un’atmosfera abbastanza sinistra… mi era sembrato che una guida perfetta a questo approccio potesse essere trovata nel modo di scrivere di Kafka. Le sue storie sono fantastiche ed allegoriche ma la sua scrittura è semplice e chiara, quasi giornalistica”.
Doppio specchio
Shining, il film, è tutto un gioco di specchi e di doppi. Gli specchi compaiono spesso (“redrum” non è forse la parola “murder” vista allo specchio?). Il doppio è enfatizzato nelle simmetrie delle immagini e nei personaggi. Ci sono due Jack Torrance, quello che vediamo cadere in preda alla follia e impugnare un’ascia e quello che, suggerisce l’ultima scena, “è sempre stato lì”. Ci sono due Grady, il custode che anni prima dell’arrivo dei Torrance ha già compiuto quei gesti assassini e quell’altro, fermo in una dimensione senza tempo, che sia un fantasma reale o il riflesso di una psiche torturata. Ci sono le sue figlie, quelle due inquietanti bambine che tanto somigliano alla celebre foto di Diane Arbus e che compaiono al piccolo Danny: che è un doppio anche lui, perché nella sua bocca abita il misterioso Tony, inquietante amico immaginario e custode della luccicanza. Ci sono infine due labirinti. Uno, costituito da siepi, è quello fuori dall’Overlook Hotel, l’altro è quello interno – o forse meglio dire interiore visto che anche l’albergo è una cosa viva – creato dal dedalo di corridoi dell’Overlook. Il labirinto richiama Borges e richiama l’inconscio. E proprio come inconscio può essere letto quel luogo pericoloso e indefinito in cui lo spettatore si perde, l’Overlook Hotel: il minotauro che si aggira lì dentro e ci cerca, non siamo altro che noi stessi. Nello Shining di Kubrick abbondano i simbolismi, il tutto ha qualcosa di più dilatato e meno concreto rispetto al romanzo di King. Illuminante è Ciment, per il quale fra i film di Kubrick Eyes Wide Shut – tratto, guarda un po’, da Doppio sogno di Arthur Schnitzler – è l’immagine speculare di Shining. Con tutta la sua abbondanza di dettagli ed elementi Shining ha dato luogo anche a una serie di letture che suonano piuttosto estreme: nel film c’è chi ha visto una critica alla società capitalista nata dallo sterminio degli indiani d’America, oppure addirittura una riflessione sul trauma dell’Olocausto, o ancora i riferimenti all’allunaggio sulla scia delle teorie complottiste per cui Kubrick sarebbe il vero realizzatore delle riprese del – finto – sbarco sulla Luna. Suona incredibile – e probabilmente lo è – ma sottolinea quanto sia possibile cogliere all’interno del film, reale o irreale che sia.
Alla sua uscita l’accoglienza dei critici non fu, come detto, molto positiva. Fra le altre cose il film venne accusato di non fare paura. Curioso come poi proprio Shining sia entrato nelle classifiche dei film più spaventosi di tutti i tempi, per quello che valgono simili liste. L’interpretazione di Nicholson ricevette sia plausi che critiche, venendo giudicata da alcuni, non solo da King, sopra le righe. Per The Shining non ci fu nessuna candidatura agli Oscar. King nel 2013 ne scrisse il seguito, Doctor Sleep. Anche da questo romanzo è stato tratto un film che lo scrittore ha apprezzato. Difficile però pensare che lascerà un segno paragonabile al capolavoro di Kubrick.
Subito dopo l’uscita Kubrick cominciò ad apportare tagli al film, che di seguito uscirà in varie versioni, raggiungendo l'Europa qualche mese più tardi. La modifica più importante è la numero uno: pochissimi giorni dopo la visione stampa, su precise istruzioni di Kubrick, i proiezionisti tagliarono una delle scene finali in cui si vedono Wendy e Danny in ospedale dopo i fatti. Rimane invece l’enigmatica fotografia di Jack Torrance datata 1921 su cui il film si chiude lasciando quella voluta sensazione di inspiegato, di non detto, di tassello mancante, che affascina ancora dopo tutti questi anni. Forse non è un caso che l’Hotel si chiami Overlook, un verbo che in inglese ha diversi significati. Fra questi c’è sovrastare e quell’albergo entrato nella storia del cinema è senza dubbio una presenza incombente e minacciosa. Ma “to overlook” vuol dire anche non notare, lasciarsi sfuggire, non fare caso. Di dettagli ai quali non si fa caso il film è pieno: ma proprio quei dettagli continuano a generare echi e corto circuiti. Sono vivi e aspettano. Proprio come l’Overlook Hotel.