Cinema

Steve McQueen

Interrogando lo sguardo

  • 9 ottobre 2023, 07:11
Steve McQueen

Steve McQueen

Di: Francesca Cogoni

Sgombriamo subito il campo da ogni equivoco: qui non si parla del celebre attore statunitense scomparso nel 1980, bensì del pluripremiato artista e filmmaker britannico. Steve McQueen è uno di quegli autori la cui pratica si situa perfettamente al crocevia di diversi media e discipline, capace di muoversi agilmente tra cinema e arti visive. Classe 1969, nella sua trentennale carriera McQueen si è servito del mezzo filmico con un approccio sperimentale e libero, facendone uno strumento malleabile e dalle infinite potenzialità espressive e creando opere che intrecciano video, installazione e fotografia.
“Per me il filmmaking è un processo che comincia con la matita, passa dal pennello e si compie attraverso la macchina da presa. Inizia sempre dalla prospettiva: sin da quando ero bambino, un foglio di carta bianco è una cornice. È una vera e propria evoluzione verso l’immagine”.


I lavori di Steve McQueen non lasciano mai indifferenti, richiedono attenzione e la catturano magneticamente, trattando problematiche fondamentali e scottanti come il diritto inalienabile alla libertà, la difficile costruzione dell’identità, il senso e il bisogno di appartenenza. Si tratta di opere dal forte coinvolgimento emotivo, fisico e sensoriale, dove il ritmo, l’elemento acustico, la matericità dell'immagine e la modalità di esposizione e fruizione non sono mai trattati come aspetti secondari, ma anzi concorrono alla pregnanza dell’opera, come hanno testimoniato i lavori esposti nella mostra Sunshine State, che la Fondazione Pirelli HangarBicocca di Milano ha dedicato all’artista nel 2022.

Steve McQueen, Sunshine State, 2022

Steve McQueen, Sunshine State, 2022. Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2022. Fotogramma da The Jazz Singer

  • © Steve McQueen. Courtesy l’artista, Thomas Dane Gallery, Marian Goodman Gallery e Pirelli HangarBicocca - Courtesy Warner Bros. Pictures, Milano

Nato a Londra il 9 ottobre 1969 da genitori di origini caraibiche, Sir Steve Rodney McQueen si forma prima alla Chelsea School of Art e poi al Goldsmiths College e alla NYU Tisch School of the Arts di New York. Esordisce come artista nei primi anni Novanta, con brevi lavori filmici in bianco e nero e senza sonoro, che in parte rievocano gli esperimenti cinematografici di inizio Novecento. Il suo avvicinamento all’immagine in movimento avviene con il formato Super 8, a proposito del quale afferma: “Ha plasmato il modo in cui lavoro ancora oggi, la pellicola Super 8 era davvero costosa e dovevo avere in anticipo un’idea di ciò che intendevo riprendere… l’economia di mezzi mi ha aiutato a sviluppare la mia pratica di regista e artista”.

Steve McQueen, Caribs’ Leap, 2002 (still)

Steve McQueen, Caribs’ Leap, 2002 (still)

  • © Steve McQueen. Commissionato da Documenta e Artangel. Courtesy l’artista, Thomas Dane Gallery e Marian Goodman Gallery

Tra le prime opere di McQueen spicca Deadpan (1997), grazie a cui nel 1999 vince il prestigioso Turner Prize. Il breve film girato in 16 mm trae ispirazione dall’iconica scena del ciclone del film Steamboat Bill Jr. (1928) con Buster Keaton. McQueen rinnova e disseziona la scena sostituendosi all’attore e assumendo un atteggiamento imperturbabile mentre intorno a lui tutto crolla. Un modo per riflettere sull’identità nera nella storia del cinema: tema caro a McQueen, che sarà affrontato in numerose opere nel corso della sua carriera, raggiungendo l’apice con la potente video installazione Sunshine State, presentata per la prima volta al pubblico proprio in occasione della mostra milanese.

Fin da subito, McQueen si distingue tra gli artisti della sua generazione per il suo linguaggio innovativo e per la volontà di puntare lo sguardo sulle tante contraddizioni, gli stereotipi e le assurde discriminazioni insite nella società e nella cultura occidentale contemporanea. Nei primi anni Duemila, lavori come Caribs’ Leap e Western Deep riflettono in modo ancora più profondo sul tema dell'identità nera. Nel primo, McQueen ritorna alle sue radici, girando sull’isola caraibica di Grenada, da cui provengono i suoi genitori. I due video che compongono il lavoro mostrano rispettivamente delle figure umane che cadono nel vuoto - rievocazione di una vicenda del XVII secolo, quando i nativi caraibici si uccisero saltando dal punto più alto dell’isola pur di non sottomettersi agli occupanti francesi - e poi una spiaggia locale ripresa dall’alba al tramonto, con le diverse attività che si susseguono nell’arco della giornata, dalla pesca ai giochi in acqua dei bambini. Presente e passato per testimoniare quanto le vicende di ieri siano ancora tangibili oggi. Western Deep, invece, è un cortometraggio che ci porta nelle viscere della Terra, tra i lavoratori stremati di una delle miniere d'oro più profonde al mondo: TauTona in Sudafrica. “Volevo che lo spettatore percepisse per davvero le molecole di polvere” spiega McQueen. Di certo, il film trasmette un forte senso di claustrofobia, turbando con la sua dimensione sonora e immergendoci totalmente nelle sue oscure e polverose profondità.

Steve McQueen, Western Deep, 2002 (still)

Steve McQueen, Western Deep, 2002 (still)

  • © Steve McQueen. Commissionato da Documenta e Artangel. Courtesy l’artista, Thomas Dane Gallery e Marian Goodman Gallery

Contemporaneamente, McQueen utilizza il medium filmico anche per indagare la corporeità e per porre l’accento sull’atto del guardare. La macchina da presa diventa così un mezzo per scandagliare, violare in qualche modo l’intimità, trasmettendo sensazioni tattili e carnali. Come accade in
Charlotte (2004), in cui osserviamo il primo piano dell’occhio dell’attrice Charlotte Rampling mentre viene ripetutamente stuzzicato e minacciato dal dito dell’artista, in un continuo alternarsi di repulsione e attrazione.

"Widows" di Steve McQueen

RSI Cultura 16.11.2018, 08:55

Il tema della fisicità, accanto a quello della privazione della libertà, è al centro anche del primo lungometraggio dell’artista: Hunger (2008). Basato su un fatto realmente accaduto, il film ripercorre la triste vicenda di Bobby Sands, membro dell’Armata della Repubblica Irlandese che nel 1981 perse la vita a seguito di uno sciopero della fame di oltre due mesi nella prigione di Maze. Steve McQueen porta l’attenzione sul lento e atroce deperimento del corpo dell’attivista nordirlandese e sulle brutali violenze che i detenuti repubblicani dovettero subire. La pellicola si aggiudica il premio Caméra d’Or per la migliore opera prima al 61° Festival di Cannes, ma è con il lungometraggio 12 anni schiavo (12 Years a Slave), del 2013, che l’artista lascia definitivamente il segno nel mondo dell’industria cinematografica, ottenendo, tra i tanti riconoscimenti, ben quattro Oscar, tra cui quello come miglior film. Anche in questo caso, McQueen si lascia ispirare da una storia vera, basando la pellicola sull’autobiografia del talentuoso violinista nero Solomon Northup, che nel 1841 venne ingannato e costretto in schiavitù in Louisiana. E anche qui lo sguardo di McQueen si concentra sullo svilimento e patimento psicofisico del protagonista, sulla disumanizzazione del suo corpo, ponendoci di fronte, con spiccata crudezza, alla barbarie dello schiavismo. Del resto, McQueen non è certo tipo da lusingare lo spettatore. Edulcorare non è nelle sue corde, le sue immagini sono create per “toccare”, interrogare lo sguardo e la coscienza. «Non mi interessa influenzare lo spettatore, anzi, cerco completamente l’opposto. Sono attirato da una verità. A volte le cose più terribili avvengono nei luoghi più meravigliosi. Io non posso mettere un filtro alla vita. È questione di non sbattere le palpebre» dichiara in un’intervista del 2014.

Spesso il cinema, soprattutto le prime pellicole della dorata Hollywood, hanno avuto una forte influenza sulla percezione e la costruzione dell’identità individuale e collettiva. McQueen ne è consapevole, per questo nei suoi lavori mira a creare una contro narrazione scevra da preconcetti e forzature. Proprio come avviene nel recente Sunshine State, poderosa video installazione, al contempo lirica e feroce, in cui l’artista intreccia storia del cinema e vissuto personale. Mentre la voce di McQueen narra la terribile aggressione razzista che suo padre subì da giovane - «Mio padre si chiamava Philbert, un nome molto vittoriano, e una delle ultime cose che mi raccontò prima di morire fu la storia di quando, da migrante, lavorava in Florida negli anni Cinquanta…» - in due grandi schermi contigui si avvicendano le immagini del sole infuocato e alcune scene tratte dal musical hollywoodiano The Jazz Singer (1927), abilmente alterate dall’artista attraverso l’effetto rewind e l’inversione positivo/negativo. McQueen si sofferma in particolare sul momento in cui l’attore protagonista, prima di entrare in scena a Broadway, si trucca il volto di nero.

Oggi la famigerata consuetudine del blackface per fortuna è stata bandita, ma c’è ancora tanto da fare sul piano della lotta alla discriminazione, così come sulla tutela della libertà e dei diritti fondamentali. Con la sua arte, Steve McQueen ci invita a non voltare lo sguardo dall’altra parte.

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