Filosofia e Religioni

La morte, e poi?

Nell’attuale vuoto religioso il timore della fine di tutto è cresciuto esponenzialmente. Ma ogni vuoto chiede di essere riempito - Dall’antica Grecia a oggi così i filosofi pensano l’aldilà

  • Ieri, 14:00
  • Ieri, 16:03
Morte

Morte

Di: Marco Vannini, filosofo

«Il timore della morte è il segno più chiaro di una vita falsa, cioè cattiva», annotava Wittgenstein, per cui, se il filosofo austriaco ha ragione, dobbiamo concludere che la grande maggioranza degli esseri umani conduce una vita falsa e cattiva, tanto è comune il timore della morte. È da notare comunque che, se tale timore è un fenomeno di ogni tempo, tipico del nostro è il tentativo di rimuovere per quanto possibile il pensiero stesso del morire. Lo rilevava anche papa Francesco, che, aprendo dal suo letto di ospedale la Quaresima, periodo di penitenza che dovrebbe far riflettere anche sulla finitezza della vita umana, lamentava questa sorta di esorcizzazione della morte. Bisogna però osservare che anche la Chiesa cattolica in proposito ci ha messo del suo, optando progressivamente, almeno dai tempi del Concilio Vaticano II, per una visione più ottimistica della vita e del mondo, prendendo le distanze da quella che è stata per secoli la sua tradizione ascetica. Basti un piccolo esempio: imponendo le Ceneri sul capo del fedele, secondo la vecchia liturgia il sacerdote recitava la formula: Memento quia pulvis es, et in pulverem reverteris, ovvero «Ricordati che sei polvere, e in polvere ritornerai», mentre in quella attuale si limita a dire: «Convertiti e credi al vangelo», ove, al di là della significante differenza data dall’uso delle due diverse lingue, balza all’ occhio la profonda diversità del messaggio che si vuole dare.

Il fatto è che per secoli il fedele era sì invitato costantemente a meditare sulla morte, unico fatto sicuro della nostra vita terrena, ma questa meditazione era profondamente legata a quella sulla vita eterna, ovvero sul destino dell’anima – anzi, si può ben dire che era finalizzata a quest’ultima: «Morte, giudizio, inferno, paradiso», questi i novissimi, ovvero, alla latina, le realtà ultime da meditare. Sotto questo profilo, non v’era tanto timore della morte, quanto del giudizio di Dio, peraltro accompagnato dalla fede nella sua misericordia. Paradossalmente si può perciò dire che il timore della morte sia cresciuto in rapporto proporzionalmente diretto con la fine della credenza in Dio, nell’immortalità dell’anima e nella vita eterna.

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Ora, siccome prima o poi tutti sono costretti a pensare alla morte, nell’attuale vuoto religioso il suo timore è cresciuto esponenzialmente e, dato che ogni vuoto chiede di essere riempito, ecco che è nata la tanatologia, ovvero, alla lettera, la scienza della morte. Una scienza ben strana, si potrebbe dire, dal momento che della morte nessuno ha esperienza propria, e il veder morire gli altri non permette certo di conoscere la morte in se stessa. Ricordando ancora una volta quel che scrive Wittgenstein, la morte non è infatti un evento della vita, la morte non si vive, per cui anche le esperienze cosiddette di pre-morte (NDE, ovvero Near Death Experiences, in inglese), per quanto interessanti, riguardano eventi che, sia pur vicini alla morte, morte non sono affatto. In concreto, in effetti, la cosiddetta tanatologia trova la sua ragion d’essere in un porsi sostanzialmente come un accompagnamento alla morte - o come pudicamente si dice, sempre per non pronunciare quel terribile nome, al “fine vita”. Si tratta dunque di quello che un tempo, nel linguaggio del celebre moralista S. Alfonso de’ Liguori, (1696-1787) si definiva “apparecchio alla morte”, ed infatti una parte centrale della tanatologia è costituita dall’ offerta della ragionevole speranza nella prosecuzione della vita stessa, ovvero nell’aldilà, presentata non più con le vecchie categorie religiose di inferno e/o paradiso, ma con le moderne teorie fisiche sulla relatività del tempo, con tutte le possibilità consolatorie che esse aprono.

La ragionevole speranza è proprio il titolo di un recentissimo libro del filosofo e romanziere Sergio Givone, il cui sottotitolo recita: Come i filosofi hanno pensato l’aldilà (Solferino, Milano 2025). Con una scrittura ariosa e accattivante, per niente cattedratica, aperta alla cultura in generale – non solo filosofia, ma anche arte e letteratura - l’autore conduce per mano alla scoperta delle principali idee che l’umanità, a partire dall’antica Grecia giungendo fino ai contemporanei, ha avuto ed ha sull’aldilà, da quelle che lo affermano, in vario modo, a quelle che, in modo altrettanto vario, lo negano. Cosa sia ragionevole sperare è in realtà una domanda specifica che si fa (e ci fa) Kant, e la risposta del filosofo tedesco è che è ragionevole sperare che esista Dio, dato il quale si apre agevolmente la porta dell’immortalità dell’anima e di un destino eterno di beatitudine. Al contrario, senza Dio è quasi ovvio pensare la morte come un muro invalicabile, per cui con essa tutto finisce e - anche se la vita mantiene un senso, dal momento che il bene resta bene, così come il male resta male - permane la malinconia per la finitezza di tutto ciò che è bello, e che abbiamo amato: quella che il filosofo cattolico Maritain chiamava la “grande malinconia pagana”. Un esempio ce lo danno gli struggenti versi dell’epigramma funerario che il latino Marziale scrive per la piccola Erotion: «Che non provi orrore per le ombre nere e per le bocche mostruose del cane infernale, Cerbero. Avrebbe compiuto il sesto inverno, se fosse vissuta ancora sei giorni. Possa giocare ancora con me e cinguettare il mio nome con la boccuccia ancora balbettante. Che una terra non dura ricopra le tue tenere ossa; e tu, o terra, non essere pesante su di lei: essa su di te pesò così poco».

Come l’autore dimostra, non è però vero che il mondo antico, pre-cristiano, fosse privo della “ragionevole speranza”. Basti pensare alla grande tradizione filosofica platonica, stoica, neoplatonica, nella quale troviamo frequenti, e spesso bellissimi, testi sull’aldilà, alcuni dei quali, come ad esempio il cosiddetto Sogno di Scipione nel De re publica di Cicerone, furono, anzi, assai cari ed ispiratori per gli stessi scrittori cristiani.

Givone conclude il suo bel libro confessando di amare molto la canzone You Want It Darker, scritta da Leonard Cohen poco prima di morire, in cui c’è il verso I’m ready, my Lord, Sono pronto, mio Signore. Versione inglese, e quindi più conforme ai nostri tempi, del latino Te Deum, il cui ultimo versetto recita: In te Domine, speravi, non confundar in aeternum, Ho sperato in te, Signore; che io non venga confuso in eterno.

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