Letteratura

Akutagawa Ryūnosuke

Ombre moderne

  • 18 luglio 2021, 00:00
  • 31 agosto 2023, 11:15
Akutagawa ryunosuke
Di: Valerio Abate 

Il 24 luglio del 1927 muore Akutagawa Ryūnosuke, suicida. Ha trentacinque anni quando decide di porre fine a un lungo periodo di crisi che lo porterà a isolarsi dalla famiglia, a evitare incontri e scherzi del destino per rifugiarsi nell’ultimo baluardo contro gli amari sorrisi a cupi eventi, contro sensazioni sinistre e visioni infernali, contro tutta un’esistenza legata stretta al torace che in pochi anni gli curverà le spalle. Quell’ultimo baluardo è la scrittura.

Nato nel 1892, Akutagawa è figlio della modernità. Solo trent’anni lo separano dall’uscita del Giappone da un isolamento durato più di due secoli, ma ciononostante la cultura occidentale è per lui ovvia: legge autori europei in inglese, beve caffè, fuma sigari e indossa abiti occidentali. Ma non si limita a questo, con abilità riesce a innestare nel suo modernismo leggende ed espressioni medievali. Fin da piccolo, essendo cresciuto con gli zii nella parte più antica di Tokyo, assorbe le ombre e i suoni del teatro Kabuki, si nutre della letteratura del periodo Edo e come ogni giapponese colto premoderno conosce la lingua e la letteratura cinesi. Un vecchio detto nipponico, che definisce un’elevata cultura, dice: kokon tōzai ni tsūjiru (dialogare col vecchio e col nuovo, con l’Est e con l’Ovest).

Uno dei più prestigiosi premi letterari giapponesi porta il suo nome. Akutagawa è quello che noi definiremmo un classico moderno. Un esordio rapido, una fama repentina; una scrittura nata matura dicono i critici, manifestatasi già nel pieno dell’eleganza letteraria. A detta di Murakami Haruki il tratto distintivo di Akutagawa è lo stile, l’abile uso della lingua giapponese: la conoscenza della letteratura cinese gli permetterà di evocare una raffinatezza classica risvegliando parole di tempi remoti. Ma questo evidentemente può saperlo solo chi lo legge in lingua originale, tutti gli altri si dovranno accontentare delle traduzioni e, loro malgrado, tralasciare ciò che più conta per dedicare attenzione ai temi, nientemeno che moderni.

Akutagawa e compagni, maggio 1919

Akutagawa e compagni, maggio 1919

Fin dagli anni da studente all’Università Imperiale di Tokyo Akutagawa pubblica racconti e scritti critici su diverse riviste letterarie. È un periodo in cui le pagine delle riviste giapponesi ardono di dibattiti: il naturalismo ha di gran lunga più successo, ma Akutagawa si oppone con tutte le forze all’idea di una letteratura che si limita a riprodurre la realtà. Allora dalla sua penna prendono forma storie di folli, meschini e miserabili, di inetti e codardi samurai senza nome, di incantatori indiani dai baffi morbidi, kappa moderni, antichi maghi cinesi, simboli e luoghi leggendari di lunga tradizione. Ci porta in visita sotto lo specchio d’acqua di uno stagno nel paradiso, dove vasto si apre cielo nero dell’inferno che avvolge il monte di spade e il lago di sangue. Ma più chiara è La rappresentazione dell’inferno, dove l’orrore e il terribile si covano sordamente per poi divampare in un’immagine che farebbe accapponare la pelle persino a un demone; e si badi che questa scena si compie in questo mondo, l’unico vero inferno.

Nel bel mezzo di questo cupo mondo possiamo tuttavia vedere, come egli ricorda in Vita di uno stolto, un Akutagawa ventenne incollato in tarda giornata alla scaletta di una libreria alla ricerca di nuovi testi: Baudelaire, Ibsen, Schaw, Maupassant, e ancora Nietzsche e Verlaine, Hauptmann e Dostoevskij. I caratteri stampati lo animano. Sui dorsi di quei libri la luce del vespro si sovrappone al tramonto di un secolo; e con esso il sorgere del Pantheon dei santi moderni. A volte bisogna leggere un racconto giapponese per avere rivelata una grande religione moderna; forse proprio perché là la modernità è giunta improvvisamente in tutta la sua piena criticità.

Il mitico regno sotterraneo dei kappa, abitato come una fiaba da figure tipiche: il poeta e il filosofo, il pescatore e il dottore, il sacerdote, il capitalista e il socialista. Qui l’ordine culturale umano viene non solo dubitato ma deriso, i sensi sono stravolti, i ruoli invertiti e le regole morali risultano effimere, se non ridicole. Poi scoviamo la chiave di volta. Lo studente kappa, alla richiesta del protagonista di parlargli della loro religione, risponde: «Come sapete, esistono il Cristianesimo, il Buddhismo, la religione musulmana, la zoroastriana ed altre. Ma quella di gran lunga più importante è il Modernismo o Culto della vita» (Kappa, SE). Il tempio del Modernismo è il più imponente della città. I suoi santi? Strindberg, Wagner, Tolstoj, Kunikida Doppo, Gauguin, San Nietzsche. L'insegnamento? «Vivi con intensità». Akutagawa ironizza sottilmente su quella che in effetti è anche la sua di religione. Non è quindi strano notare l’evidente relazione che torna e ritorna tra la vita intensa e il suicidio, o la follia. Per questo possiamo riconoscere l’anima di Akutagawa non nel narratore, bensì nel solitario kappa poeta che si suicida. Così recita parte dell’intervista al suo fantasma:

Akutagawa è attratto dai disgraziati talentuosi, instancabilmente li cerca, vi si riconosce. Si dirà di vivere con passione così da poter morire in qualsiasi istante. Eppure ammette di vivere sempre allo stesso modo, come un pupazzo. «Il futuro non gli riservava ormai che la follia o il suicidio» (Vita di uno stolto, in Rashōmon, Einaudi) scrive nel suo racconto autobiografico, come se queste fossero le uniche possibilità plausibili. A prova di questo inesorabile destino sarà il segno ominoso e forse profetico di un suo caro amico ceduto alla pazzia. Durante una visita l’amico gli rivelerà sottovoce che entrambi sono posseduti dallo stesso spirito maligno: il demone di fine secolo. Akutagawa accoglie questa verità e non può che provare invidia per i medievali fiduciosi della potenza di Dio; ma lui non può credere. Tuttavia spera in una consolazione e cerca riparo presso un vecchio cristiano, un eremita da soffitta al quale di tanto in tanto confessa i suoi turbamenti. Presto però capisce che nemmeno quella soffitta con un crocifisso appeso alla parete è un luogo sicuro:

Ritratto di Akutagawa

Appartato a un tavolo di un caffè o nella sua stanza d’albergo, quello che Akutagawa percepisce è il male di fine secolo, anzi di fine era. Certo anche il fatto di essere figlio di un fallito e di una pazza non ha che incupito il suo animo, ma qui la psicanalisi rilascia solo un pessimo gusto. Come altri del suo tempo, lui ha visto che la luce si è spenta, e non ha potuto accendere nessuna lucina colorata per sostituire il sole, quindi il demonio lo tormenta. Ma che lo spirito tradizionale lo rende infelice non meno di quello moderno, è ciò che trova più insopportabile.

In Akutagawa è inscritto lo stretto legame tra follia, modernità e suicidio. Ciò appare limpido in Kappa e ne La ruota dentata; ma a mio parere il capolavoro di Akutagawa è un breve racconto pubblicato all’età di ventitré anni su una rivista universitaria: Rashōmon. Le citazioni di vasta erudizione sono qui rarissime, lascia invece posto a dense immagini di un’epoca decadente e miserabile: un edificio imperioso adibito alla tumulazione di cadaveri spogliati alla debole luce di una torcia nei giorni di pioggia, un fatiscente Rashōmon in un tempo dagli dèi sfavorito e gettato nello squallore dell’indigenza, dove onore e pudore affogano nella fame; ma non si tratta, come potrebbe sembrare, di fame di pane, bensì di una fame dalla più difficile estinzione. Meglio di ogni dialogo e riflessione, queste immagini ci immergono nel cupo mondo di Akutagawa, un intero mondo. Qui lui tocca il luogo più profondo, e più buio, un luogo spezzato dove il suo cuore e il cuore del tempo vengono a coincidere.

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