Un uomo che dorme, indagine poetica (e filosofica) della condizione umana, lontano dalla critica sociale di altri suoi romanzi (Le cose, per citarne uno), e spesso definito un inno all’indifferenza, esplora l’alienazione individuale attraverso una trama ridottissima. Il protagonista, anonimo studente parigino, si disfa gradualmente delle sue coordinate strutturali: abbandona gli studi, gli amici, gli affetti, e persino le emozioni. La prosa conduce il lettore dritto nel cuore di una sospensione esistenziale, dove la seconda persona singolare crea un legame stranamente intimo col lettore, ormai relegato a testimoniare un lento processo di annichilimento. Punteggiata da descrizioni minuziose di gesti e oggetti, la scrittura coglie ogni aspetto dell’infra-ordinario, “ogni rumore di fondo che costituisce ogni istante della nostra quotidianità”, sino a farsi specchio di un presente indefinito.
L’indifferenza dissolve il linguaggio, imbroglia i segni. Sei paziente e non aspetti, sei libero e non scegli, sei disponibile e niente ti mobilita. Non chiedi niente, non esigi niente, non imponi niente. Senti senza mai ascoltare, vedi senza mai guardare: le crepe nei soffitti, i listelli nel parquet, il disegno delle mattonelle, le rughe intorno agli occhi, gli alberi, l’acqua, le pietre, le automobili che passano, le nuvole che disegnano in cielo le loro forme di nuvole.
Georges Perec
La narrazione è costruita essenzialmente su due poli principali, la stanza, simbolo di un microcosmo claustrale, e la città, regno di un’incessante deambulazione senza meta. Entrambi gli spazi concorrono a creare una sorta di “estasi del vuoto”, in cui la dissoluzione del sé corrisponde a un’esistenza vieppiù priva di significato. In questo scenario, il corpo non solo diventa palcoscenico del malessere (insonnia, spossatezza, vuoti gastrici) ma ipersegno di una crisi dell’io e del suo senso, anche in relazione alla propria spazialità.
Non voler più niente. Aspettare finché non ci sia più nulla da aspettare. Vagare, dormire. Lasciarsi portare dalla folla, dalle vie. Seguire i canaletti di scolo, le inferriate, l’acqua lungo le sponde. Camminare lungo il fiume, rasente ai muri. Perdere tempo. Tenersi lontano da ogni progetto, da ogni smania. Essere senza desideri, senza risentimenti, senza ribellione. Davanti a te, nel corso del tempo, una vita immobile, senza crisi e senza disordine: nessuna asperità e nessuno squilibrio. Un minuto dopo l’altro, un’ora dopo l’altra, un giorno dopo l’altro, una stagione dopo l’altra, qualcosa comincerà che non avrà mai fine: la tua vita vegetale, la tua vita azzerata.
Georges Perec
L’altro (da sé) resta, nondimeno, una presenza inevitabile, sottile ma fondamentale contrappunto della narrazione. La voce dei vicini, i volti familiari nei caffè e nei cinema rappresentano fragili ancore che riescono, almeno in parte, ad arginare la deriva totale nell’apatia (“nel dormire”), a indizio che l’uomo, per quanto possa rifugiarsi nella coscienza e allontanarsi dal mondo, è, a condizione del suo “essere fisico”, ricondotto all’altro.
Del 1974 è l’omonima trasposizione cinematografica, realizzata dallo stesso Perec in collaborazione con il regista Bernard Queysanne.
La sperimentazione e la creatività di Georges Perec
Alphaville 20.05.2024, 12:35
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