Letteratura

“Il macellaio”, un libro intenso che denuncia un’ideologia assurda

Joyce Carol Oates fruga nella psiche di un omuncolo megalomane e ottuso, autoproclamato pioniere di una presunta branca della medicina, la ginopsichiatria

  • 28 gennaio, 13:19
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Di: Viola Di Grado  

L’ultimo libro di Joyce Carol Oates “Il macellaio” è edito in Italia dalla Nave di Teseo. Si tratta della biografia, in parte reale e basata su documenti storici e in parte romanzata, di un medico vittoriano, Silas Weir, autoproclamato pioniere di una presunta branca della medicina, la ginopsichiatria, ispirata ai principi della frenologia e incentrata sulla correlazione tra psiche della donna e specificità dell’organismo femminile. Lo scopo del racconto è restituire, sotto le semi-mentite spoglie della biografia, l’orrore misogino di un tempo in cui la donna oltre a non poter ambire a un posto nella società non poteva ambire a un posto in se stessa, nel senso che non le era concesso di possedere una vera e propria individualità, in quanto qualunque espressione di soggettività che non rientrasse nella docilità imposta e nell’assoluto servilismo all’uomo veniva registrata come follia. Conosciamo bene l’ostile ossessione ottocentesca per l’utero, ritenuto sede di tutto ciò che della donna non corrispondesse al registro della remissività; ma attraverso questo romanzo meticoloso— che fruga nella psiche di un omuncolo megalomane e ottuso, circondato da altri omuncoli megalomani e ottusi— abbiamo di questa primitiva uteromania una radiografia oscena e integrale, scandita in una serie di personaggi maschili terrificanti e di vittime femminili torturate e sconfitte. 

Le torture, naturalmente, sono ritenute dal “macellaio” benefiche operazioni volte a sopprimere ogni guizzo di ribellione femminile e restaurare la passività ritenuta condizione naturale della donna. Si va dalla “sedia della calma”, che tiene le donne legate e imbavagliate per giorni, alimentandole a forza con una dieta molto grassa, finché muoiono per esaurimento nervoso o per obesità (e le morti sono puntualmente insabbiate), alla “terapia morale” che è lavoro forzato non retribuito, passando per suture varie senza anestesia: la cosiddetta fistula, complicazione post-partum, è uno degli interessi maggiori di Weir, mosso sempre dal desiderio di fama, e contrastato da un disgusto infinito per i genitali femminili.

Slittando tra vari linguaggi —prevalentemente quello diaristico di Weir stesso e alcuni resoconti di suoi conoscenti e pazienti— Oates ci catapulta in un universo screziato e disturbante in cui, al netto degli smottamenti nel punto di vista, la verità appare univoca, intendendo per verità non quella di cui il lettore si appropria fantasmaticamente per contrasto con la narrazione proposta, ma la verità condivisa, quella storico-culturale, che come un’allucinazione collettiva procede e si cementifica capitolo dopo capitolo fino alla catarsi. 

Si tratta di una narrazione di ampio respiro, che ambisce a restituire un’atmosfera ideologica molto precisa, sostando sui dettagli nella precisa missione di creare fastidio, rabbia, repulsione. Tra le salme dissestate e le vulve rammendate, una figura eterea che sarà la prima cavia degli esperimenti di Weir e infine la sua rovina: Brigit, una serva irlandese albina che ha perso la voce dopo la morte della madre. La sua bellezza e purezza è dall’inizio alla fine la luce del testo, fino alla furente e collettiva deflagrazione finale.

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“Il macellaio” di Joyce Carol Oates

Mirador 18.01.2025, 14:40

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