La biografia che l’ultima moglie di Dostoevskij, la stenografa Anna, dedica al marito, pubblicata in italiano con il titolo Dostoevskij mio marito (il privato di un genio), non è solo un ritratto intimo dell’autore di Delitto e castigo e di Memorie del sottosuolo – per citare solo due dei suoi tanti capolavori – ma anche, in gran parte involontariamente, un trattato sull’amore. O per meglio dire, un trattato sulle modalità dell’amare in un animo potente e profondo come quello di uno scrittore di genio. E ancora di più: un ricordo prezioso di come funzionava l’amore due secoli fa.
Lo sappiamo da molti romanzi, come funzionava l’amore a quell’epoca. Pensiamo ad Anna Karenina, a Madame Bovary, al Rosso e il nero, al Maestro e Margherita, alle Relazioni pericolose... Ma un conto è l’amore all’interno di un romanzo – che per quanto possa ispirarsi alla realtà resta sempre un lavoro di fantasia – mentre altro conto è quando l’amore è osservato nell’immediatezza del vissuto e da chi lo ha vissuto. Tanto più se chi ha amato ed è stato amato ha conosciuto tale privilegio non con un individuo qualsiasi ma con il signor Fyodor Mikhailovich Dostoevskij.
L’idiota
Alphaville 03.04.2024, 11:45
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Così Anna lo nomina quasi sempre durante il racconto: semplicemente F.M. Non tanto per ricondurre a un piano di ordinarietà un individuo assolutamente fuori del comune, ma perché proprio in questa ordinarietà apparente il genio si staglia, se osservato a tu per tu, nel quotidiano, ancora di più.
E appunto uno dei grandi pregi del libro di Anna (non la chiameremo continuamente Anna Dostoevskaja) è saperci mostrare i lineamenti più delicati e intimi del sentimento che offrì e ricevette da Dostoevskij. Un sentimento che sulle prime non riuscì in nessun modo ad avvertire né tantomeno a sospettare: la figura altera, arcigna, apparentemente scostante di Dostoevskij metteva infatti a disagio, imponendo contegno e non suggerendo se non distacco e inarrivabilità. E lo stesso aspetto – secondo le parole di Anna, «non certo attraente» – induceva a osservarlo con un misto di reverenza e sospetto. A tali caratteristiche si aggiungeva poi la sua fama, già piuttosto solida in quegli anni (stava pubblicando su una rivista i capitoli di Delitto e castigo): una fama che Anna non solo subiva per sentito dire, ma perché tra i molti lettori ammaliati dalla prosa dostoevskiana lei era una delle più fervide ammiratrici. Per cui F.M. non le appare, nel primo periodo della loro frequentazione, soltanto come una persona speciale, ma inevitabilmente, potremmo dire ingombrantemente, come «il grande scrittore».
Eppure, come è frequente in molti geni, a Dostoevskij il suo aspetto e i suoi modi facevano giustizia solo fino a un certo punto. Malgrado esigesse assoluta puntualità (in forme al limite del maniacale), malgrado le sue parvenze spesso disordinate e confuse, malgrado la salute cagionevole, i capelli spettinati e la nota epilessia che lo attanagliò fin da ragazzo, malgrado fumasse in continuazione e andasse su e giù nello studiolo con l’irrequietezza di un folle, egli era – egli si sarebbe rivelato, o in parte sarebbe diventato – tenero. E questo proprio in virtù di quella dolcezza paziente e contegnosa che Anna sapeva riservargli – nei modi tipici della morigeratezza di inizio Ottocento – mentre spendevano le ore insieme.
Sì, perché l’amore non nacque per caso e nemmeno nei modi romantici che furono tipici di quel secolo: nacque nel corso di lunghissime sessioni di lavoro, quando, oppresso dai debiti e dalla necessità di portare a termine entro una scadenza improrogabile (per non perdere l’assegno) il suo ultimo lavoro, Dostoevskij chiese l’aiuto di una stenografa per dettarle a voce Il giocatore.
Allora Anna entrò, non solo nel suo studiolo, non solo nelle sue abitudini domestiche, non solo nella sua prosa e nel suo pensiero, ma anche – educatamente, sinuosamente, quasi vergognosamente, certo pudicamente – nel suo animo. E là dentro, secondo un lento climax di progressive rivelazioni, scoprì che il cantore dei demoni custodiva, come è evidente nei sottotesti e nel «sottosuolo» della sua opera, un angelo.
Dostoevskij sapeva infatti essere una summa di molti individui diversi. E tra le coltri del sentimento amoroso rivelava di sé – in questa «polifonia di identità» che fu uno dei tratti distintivi della sua opera – qualcosa di persino fanciullesco, a suo modo illibato.
Sapeva essere tenero, aveva il tatto gentile del galantuomo che non intende offendere, conosceva l’umorismo sottile e arguto dell’intellettuale passato per la condanna a morte e quattro anni di lavori forzati, e soprattutto sapeva quanto l’ironia salva il mondo non meno della bellezza. Per cui riusciva a comportarsi, di tanto in tanto, come se dalle sue vertiginose altezze si prostrasse a terra per essere protetto.
Un uomo, dunque, che quell’appassionato «trattato sull’amore» di Anna ci svela in tutta la sua articolata e prismatica umanità. Un uomo che ci ha dato i suoi capolavori anche perché dopo aver tanto patito – e durante i suoi stessi patimenti – aveva bisogno di essere amato. Un uomo che sapeva pertanto attingere, con altrettanta gioia e disperazione, ai due abissi di cui l’umano è forgiato: l’abisso della morte e il cielo dell’amore.
Anna lo ha incontrato e poi sposato nel momento cruciale della sua parabola di scrittore. Poi lo ha accompagnato fino alla morte, ricordandolo post mortem in un eterno presente della memoria. Ma nel fare questo non solo ci ha lasciato il ritratto di un genio, bensì anche una lezione di vita: laddove palpitano le corde di un gigante, è probabile che si annidi spesso l’anima semplice, infinitesimale di un fanciullo.
Dostoevskij
Laser 07.10.2021, 09:00
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